cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 13 aprile 2013

Del buon uso della paranoia



C'è qualcosa di diabolico in me
di vecchio e giovane
il mio passato non c'è
io ho, io ho lo sguardo contemporaneo
io ho lo sguardo per le cose lontane
Bugo, Millennia (2006)
La paranoia non esiste, è evidente. Al massimo esistono i paranoici: li si vede vagabondare, o stare fermi a fissare un punto che credono degno della massima attenzione, con gli occhi sbarrati, in una meraviglia che sconfina nel terrore, o nell'inespressività dei ciechi. Sono immobili, i paranoici, nel loro stare al mondo sbalorditi – e un attimo dopo schiumano di una rabbia frenetica.


Forse esistono, i paranoici. Ma la paranoia no: è una parola, un concetto, un modo di – non – essere al mondo che ormai ha lasciato spazio ad altre parole, ad altri concetti, ad altri disturbi. Non deve più combattere con la normalità ed il buon senso, perché buon senso e normalità hanno altro a cui pensare. “Paranoia” è innanzitutto una parola e come tutte le parole è anche uno strumento con cui graffiare il mondo, oltre che essere parte di esso: la sua origine è greca, è figlia dell'unione di para (oltre) e nous (mente, intelletto) e vorrebbe indicare una follia che non è la manìa, di cui sono vittime le seguaci di Dioniso, ma un andare-oltre che non ha nulla di sacro, di conturbante. Viene presa poco sul serio, la paranoia, la cui figura esemplare è forse Cassandra – Alessandra, per i greci –, la figlia di Priamo che profetizza la fine tragica di Troia, inascoltata. “Sei una Cassandra” si dice, da allora, a chi annuncia il vero – lo vede in faccia e riesce, con uno sforzo sovrumano, a metterlo in parole – ma non viene ascoltato; eppure dovremmo renderci conto, se davvero abbiamo letto Omero col dovuto rispetto, che nel dare a qualcuno l'appellativo di “Cassandra”, diveniamo corresponsabili della verità delle sue parole, cariche di destino: stiamo annunciando la nostra fine. Ma la paranoia non esiste ed i paranoici – se esistono – annunciano una verità a scoppio ritardato. C'è poco da prendersela con i profeti: quelli veri, non fanno altro che leggere i segni, già tutti presenti, di un oggi che ha bisogno delle loro attente parole, del loro intelletto ulteriore, per assumere la fisionomia di un futuro inevitabile. I profeti, scrupolosi paranoici, abitano tale sfasatura temporale: né presente né futuro – semmai, un impercettibile oscillare tra un oggi sfuggente ed un domani indefinito. Scrive il filosofo Giorgio Agamben, commentando Nietzsche, che «è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente [col proprio tempo] né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. […] La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce ad esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.» (G. Agamben, Che cos'è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pp. 8-10).

In Italia, per poco più di cinquant'anni, ha vissuto – ha consumato il proprio tempo, verrebbe da dire, vista la foga poetica del suo vivere – un profeta che non voleva essere tale. Come Cassandra, ha cercato in tutti i modi di condividere, con amici e compagnie occasionali, la gioia e la tristezza del proprio essere loro contemporaneo: Pier Paolo Pasolini – nome e cognome della nostra sacerdotessa – morì estraneo ad un Paese che oggi lo cita con rispetto e ripete pappagallescamente ciò che lui scrisse e disse, quando ciò che eravamo diventati era troppo sotto i nostri occhi per essere visto senza sforzo, senza sofferenza, senza poesia ed immaginazione. Il 14 novembre del 1974 pubblicò un articolo sul “Corriere della Sera” per parlare in prima persona al proprio tempo, ai propri contemporanei: “Io so”, ripeteva come un mantra, come una formula sacrale, in quell'articolo; Pier Paolo Pasolini sapeva i nomi delle trame “oscure” – così le si voleva rappresentare, per non sentirsi responsabili – che stavano straziando le vite di alcuni e la vita politica di un intero Paese da cinque anni; li sapeva, quei nomi, ma non poteva dirli, perché non aveva le prove. Egli sapeva perché era un intellettuale – una “Cassandra”, diremmo noi – «che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.» (P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2009 [1975], p. 89). Il dentro-fuori temporale che ogni Cassandra abita trova un analogo nel suo essere dentro-fuori ciò che deve dire: sa una verità che non può affermare, perché per farlo dovrebbe avere le prove che possiede solo chi – i giornalisti, i politici del Palazzo – è troppo compromesso col Potere per denunciarne la natura in modo credibile, senza passare per opportunista, traditore, arrivista. Eccolo, il paradosso di Cassandra: sapere proprio in quanto non si hanno le prove per sostenere davanti agli altri ciò che si sa – conoscere la verità proprio perché non la si può dire. Non è forse paranoia, tutto ciò? Ma la paranoia non esiste. Esistono, forse, i paranoici.
Fa un buon uso della paranoia chi accetta il rischio di dire-il-tutto, di dire-il-vero (la pratica che i greci chiamavano parrēsia), in un'epoca che ha escluso la possibilità di avere a che fare con l'Intero, di esercitare uno sguardo complesso sul reale, che non si accontenti di trastullarsi con i frammenti e voglia immaginare ciò che non riesce ad avere – le prove, nell'articolo di Pasolini; e pretenda di immaginare l'esistenza di qualcosa che stia oltre l'orizzonte che il suo limitato guardare gli regala. Non è forse la paranoia un intelletto ulteriore? Non è, questa, una forma di immaginazione radicale? È bene fare buon uso anche – se non soprattutto – di ciò che non esiste.


M.P.


Da leggere     G. Agamben, Che cos'è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008
                     P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2009
Da ascoltare    Bugo, Sguardo contemporaneo, Universal 2006
Da vedere       H. Ashby, Oltre il giardino (Being There), 1979
Da bere           ... meglio di no

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