C'è qualcosa di diabolico in me
di vecchio e giovane
il mio passato non c'è
io ho, io ho lo sguardo contemporaneo
io ho lo sguardo per le cose lontane
Bugo, Millennia (2006)
La paranoia
non esiste, è evidente. Al massimo esistono i paranoici: li si vede
vagabondare, o stare fermi a fissare un punto che credono degno della massima
attenzione, con gli occhi sbarrati, in una meraviglia che sconfina nel terrore,
o nell'inespressività dei ciechi. Sono immobili, i paranoici, nel loro stare al
mondo sbalorditi – e un attimo dopo schiumano di una rabbia frenetica.
Forse
esistono, i paranoici. Ma la paranoia no: è una parola, un concetto, un modo di
– non – essere al mondo che ormai ha lasciato spazio ad altre parole, ad
altri concetti, ad altri disturbi. Non deve più combattere con la normalità ed
il buon senso, perché buon senso e normalità hanno altro a cui pensare.
“Paranoia” è innanzitutto una parola e come tutte le parole è anche uno
strumento con cui graffiare il mondo, oltre che essere parte di esso: la sua
origine è greca, è figlia dell'unione di para (oltre) e nous
(mente, intelletto) e vorrebbe indicare una follia che non è la manìa,
di cui sono vittime le seguaci di Dioniso, ma un andare-oltre che non ha nulla
di sacro, di conturbante. Viene presa poco sul serio, la paranoia, la cui
figura esemplare è forse Cassandra – Alessandra, per i greci –, la figlia di
Priamo che profetizza la fine tragica di Troia, inascoltata. “Sei una
Cassandra” si dice, da allora, a chi annuncia il vero – lo vede in faccia e
riesce, con uno sforzo sovrumano, a metterlo in parole – ma non viene
ascoltato; eppure dovremmo renderci conto, se davvero abbiamo letto Omero col
dovuto rispetto, che nel dare a qualcuno l'appellativo di “Cassandra”,
diveniamo corresponsabili della verità delle sue parole, cariche di destino:
stiamo annunciando la nostra fine. Ma la paranoia non esiste ed i paranoici –
se esistono – annunciano una verità a scoppio ritardato. C'è poco da
prendersela con i profeti: quelli veri, non fanno altro che leggere i segni,
già tutti presenti, di un oggi che ha bisogno delle loro attente parole, del
loro intelletto ulteriore, per assumere la fisionomia di un futuro
inevitabile. I profeti, scrupolosi paranoici, abitano tale sfasatura temporale:
né presente né futuro – semmai, un impercettibile oscillare tra un oggi
sfuggente ed un domani indefinito. Scrive il filosofo Giorgio Agamben,
commentando Nietzsche, che «è veramente contemporaneo colui che non coincide
perfettamente [col proprio tempo] né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in
questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo
scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e
afferrare il suo tempo. […] La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione
col proprio tempo, che aderisce ad esso e, insieme, ne prende le distanze; più
precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso
una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con
l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono
contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono
tenere fisso lo sguardo su di essa.» (G. Agamben, Che cos'è il
contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pp. 8-10).
In Italia,
per poco più di cinquant'anni, ha vissuto – ha consumato il proprio tempo,
verrebbe da dire, vista la foga poetica del suo vivere – un profeta che non
voleva essere tale. Come Cassandra, ha cercato in tutti i modi di condividere,
con amici e compagnie occasionali, la gioia e la tristezza del proprio essere
loro contemporaneo: Pier Paolo Pasolini – nome e cognome della nostra
sacerdotessa – morì estraneo ad un Paese che oggi lo cita con rispetto e ripete
pappagallescamente ciò che lui scrisse e disse, quando ciò che eravamo
diventati era troppo sotto i nostri occhi per essere visto senza sforzo, senza
sofferenza, senza poesia ed immaginazione. Il 14 novembre del 1974 pubblicò un
articolo sul “Corriere della Sera” per parlare in prima persona al proprio
tempo, ai propri contemporanei: “Io so”, ripeteva come un mantra, come una
formula sacrale, in quell'articolo; Pier Paolo Pasolini sapeva i nomi delle
trame “oscure” – così le si voleva rappresentare, per non sentirsi responsabili
– che stavano straziando le vite di alcuni e la vita politica di un intero
Paese da cinque anni; li sapeva, quei nomi, ma non poteva dirli, perché non
aveva le prove. Egli sapeva perché era un intellettuale – una “Cassandra”,
diremmo noi – «che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un
intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano
regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.» (P.P. Pasolini, Scritti
corsari, Garzanti, Milano 2009 [1975], p. 89). Il dentro-fuori temporale
che ogni Cassandra abita trova un analogo nel suo essere dentro-fuori ciò che
deve dire: sa una verità che non può affermare, perché per farlo dovrebbe avere
le prove che possiede solo chi – i giornalisti, i politici del Palazzo – è
troppo compromesso col Potere per denunciarne la natura in modo credibile,
senza passare per opportunista, traditore, arrivista. Eccolo, il paradosso di
Cassandra: sapere proprio in quanto non si hanno le prove per sostenere davanti
agli altri ciò che si sa – conoscere la verità proprio perché non la si può
dire. Non è forse paranoia, tutto ciò? Ma la paranoia non esiste. Esistono,
forse, i paranoici.
Fa un buon
uso della paranoia chi accetta il rischio di dire-il-tutto, di dire-il-vero (la
pratica che i greci chiamavano parrēsia), in un'epoca che ha escluso la
possibilità di avere a che fare con l'Intero, di esercitare uno sguardo
complesso sul reale, che non si accontenti di trastullarsi con i frammenti e
voglia immaginare ciò che non riesce ad avere – le prove, nell'articolo
di Pasolini; e pretenda di immaginare l'esistenza di qualcosa che stia oltre
l'orizzonte che il suo limitato guardare gli regala. Non è forse la paranoia un
intelletto ulteriore? Non è, questa, una forma di immaginazione radicale? È
bene fare buon uso anche – se non soprattutto – di ciò che non esiste.
M.P.
Da leggere G. Agamben, Che cos'è il contemporaneo?,
Nottetempo, Roma 2008
P.P. Pasolini, Scritti
corsari, Garzanti, Milano 2009
Da ascoltare Bugo, Sguardo contemporaneo,
Universal 2006
Da vedere H. Ashby, Oltre il giardino (Being
There), 1979
Da bere ... meglio di no
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