“Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole, in breve, l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno.”
Nel 1882 Vincent scriveva questa lettera al fratello Theo forse l’unico che riuscì a capire e amare davvero l’artista che c’era dietro quell’uomo apparentemente istintivo, dai sentimenti forti e violenti.
Pochi giorni fa ho finito di leggere l’ultimo romanzo di Giovanni Montanaro, Tutti i colori del mondo nel quale lo scrittore dipinge il percorso di Van Gogh dagli inizi, dai primi schizzi, fino all’esplosione di colori che caratterizza il periodo più fertile del pittore. Questa trasformazione è vista dagli occhi di una ragazza, Teresa Senzasogni, la quale divide con Vincent i momenti che precedono il “miracolo che lo ha trasformato in un pittore, senza accademie né maestri.”
Lettura consigliata: Tutti i colori del mondo, Giovanni Montanaro, Feltrinelli, 2012
Visione consigliata: Van Gogh (1999) di M. Pialat
Vincent Van Gogh nasce a Groot Zundert, Olanda, nel marzo del 1853. Diviene dapprima commesso in una libreria di paese, in seguito tenta di seguire le orme del padre come predicatore, trasferendosi in un piccolo paese di minatori belga – e condividendo con loro per diversi mesi la vita in miniera.
Dopo aver trascorso un periodo in solitudine, matura l’idea di diventare pittore e nel 1880 si reca a Bruxelles, dove si iscrive all’Accademia delle Belle Arti.
Sono di questo periodo le prime crisi di nervi: la difficoltà nel trovare un modo di esprimere la propria interiorità, la certezza di essere incompreso, fanno precipitare l’artista in una profonda depressione, che diventa in seguito una sorta di alienazione mentale; crisi che gli fa completamente perdere ogni contatto con la realtà.
Fortunatamente a questi periodi bui sono intervallati momenti felici e spensierati nei quali l’artista dipinge incessantemente da mattina a sera.
In uno dei primi capolavori “I mangiatori di patate”, datato 1885, Vincent riesce a mettere a nudo la miseria, la povertà di alcuni contadini durante la cena serale. I volti nodosi e segnati dal lungo lavoro durante la giornata sono appena illuminati da una tenue luce a petrolio.
“...ritengo sia errato dare ad un quadro di contadini una sorta di superficie liscia e convenzionale...se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti – va bene, non è malsano...”
Queste brevi righe, parte di una lettera scritta al fratello, rivelano un Van Gogh compassionevole e disposto a trattare di temi sociali, così come anni prima aveva condiviso lui stesso le fatiche e la sorte dei minatori.
Anno spartiacque è il 1886: l’anno del trasferimento a Parigi, l’incontro con i divisionisti e gli impressionisti, l’anno in cui Gauguin e Van Gogh vanno a vivere assieme nella “casa gialla” di Arles.
Sono di questi anni i più famigerati “Autoritratti”, nei quali, accostamenti di colori complementari in filamenti lo riconducono alla scuola divisionista di Seurat. Gli occhi persi all’orizzonte, le labbra strette, la secchezza del volto fanno trasparire l’ormai evidente carattere instabile e malato, dato da ritmi e regimi di vita forsennati; cose che vengono leggermente mitigate dall’amico Gauguin la cui pulizia e meticolosità arrivano a disciplinare, almeno in parte, l’autentico caos in cui l’amico vive.
I due passano le giornate a dipingere in mezzo ai campi, nelle vigne e nelle colline, en plein air, e le serate a discutere, a influenzarsi in lunghe discussioni.
Ma la diversità di caratteri non tarda a manifestarsi: i rapporti tra i due artisti diventano sempre più tesi; Van Gogh teme di perdere l’amico, è angosciato dall’idea di rimanere ancora solo, diviene geloso, possessivo e irritabile.
Quando Paul lo ritrae intento a dipingere i girasoli, Van Gogh ha una reazione estremamente ostile: rimane sconvolto nel vedere i segni fisici del suo squilibrio mentale evidenziati con tale precisione, si convince che l’amico l’abbia ritratto in quel modo per umiliarlo, dargli una lezione. È la goccia che fa traboccare il vaso: la notte di natale del 1888 Gaguin prepara i bagagli, ma quando Vincent lo vede tenta di fermarlo aggredendolo con un rasoio. La stessa notte l’artista, con un gesto di pura follia autolesionista, si taglia il lobo dell’orecchio sinistro e lo fa recapitare ad una prostituta che era solito frequentare con l’amico.
Pochi mesi dopo Vincent si rende conto che i segni della malattia mentale lo rendono ormai incapace di gestire la propria vita, nel maggio del 1889 entra volontariamente nella casa di cura di Saint-Remy dove però continua a dipingere.
È di questo periodo uno dei suoi ultimi capolavori: “Campo di grano con volo di corvi” (1890). Nel quadro, di una luminosità straordinaria, un mare giallo di grano si cuce all’azzurro del cielo ormai coperto di nubi nere frastagliate di corvi neri. Questa luminosità presto sarà vinta dall’incombere della tempesta, proprio come l’artista poco dopo troverà la morte in un campo di grano, stroncato dalla disperazione, dalla rabbia e dalla solitudine che solo tramite la sua pittura riusciva a trasmettere.
“(…) L’amore fa sempre folli, Signor Van Gogh, quelli a cui non importa niente vivere non diventano mai pazzi.” (Tutti i colori del mondo, Giovanni Montanaro, Feltrinelli, 2012)
A.L.
Lettura consigliata: Tutti i colori del mondo, Giovanni Montanaro, Feltrinelli, 2012
Visione consigliata: Van Gogh (1999) di M. Pialat
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