Una
lettura infedele de Il Duello, di Joseph Conrad
We got up early,
washed our faces,
walked the fields
and put up crosses.
Passed through the
damned mountains,
went hellwards,
and some of us
returned,
and some of us did
not.
PJ Harvey, In The Dark
Places (2010)
«La carriera
di Napoleone fu come un lungo duello contro l'Europa intera, ma all'imperatore
non piaceva che i suoi ufficiali si battessero tra loro; non gli piacevano gli
ammazzasette e poco si curava delle tradizioni. E tuttavia c'è la storia di un
duello che divenne leggenda nell'esercito imperiale e che attraversa tutta
l'epopea delle guerre napoleoniche».
Nell'attacco
del racconto The Duel (1908), Joseph Conrad fa giocare, l'uno contro
l'altro, due punti di vista sul mondo – e sembra alludere ad una loro intima
complicità: da una parte, vediamo muoversi la Storia, movimento dello hegeliano
Spirito Assoluto che si rivela nella figura di Napoleone I; dall'altra, il
brulicare delle piccole storie, che nondimeno, per dinamiche insondabili, sanno
diventare leggenda e mistero già agli occhi dei loro contemporanei – e restano,
come fantasmi fatti della stessa sostanza delle parole, nella memoria popolare.
Il duello
è il racconto di una sfida che copre quasi due decadi: i suoi protagonisti, gli
ufficiali D'Hubert e Feraud, hanno poco più di vent'anni quando tutto ha inizio
– ne hanno quasi quaranta, quando la vicenda sembra trovare una conclusione. Il
loro scontro vive nelle pieghe di atroci violenze collettive, che sconquassano
l'Europa, ridefinendone a più riprese l'assetto geo-politico. Le vittorie e le
sconfitte di Napoleone sono il terreno insanguinato nelle cui fratture Feraud e
D'Hubert portano avanti una sfida insensata, irragionevole come il diniego
ostinato del Bartleby di Melville. Se quest'ultimo rivela l'incepparsi del
linguaggio come dispositivo sociale, gli infiniti duelli dei due giovani
ussari, poi maturi ufficiali, stanno a testimoniare la cecità dell'agire umano,
il suo esser senza scopo.
Tutto
comincia – se così si può dire – in uno dei pochi giorni di pace armata, in cui
soldati e ufficiali godono il riposo dei guerrieri, chiacchierando e lucidando
spade che torneranno a sporcarsi a breve. L'ussaro D'Hubert deve comunicare
all'ussaro Feraud che si trova in stato di arresto, avendo egli violato il
regolamento militare, che vieta ai soldati di sfidare a duello i civili. Cosa
che Feraud, mosso dal proprio animalesco istinto, ha puntualmente fatto. In
pochi minuti, il rifiuto di fronte alla punizione e l'orgoglio ferito di Feraud
danno il via ad una rivalità in cui si rispecchia un'epoca, ma che trascende il
contesto storico per dirci qualcosa sul senso stesso dell'agire umano. Gli
innumerevoli, ostinati duelli che Conrad racconta – a tratti con dovizia di
particolari, altre volte con pennellate rapide – finiscono immancabilmente con
un nulla di fatto: entrambi i contendenti sopravvivono – e se è vero che è la
cieca furia di Feraud a dare pathos alla sfida, è anche vero che
D'Hubert, che incarna un equilibrato, razionale desiderio di vivere e
conservarsi nell'esistenza, in un ordine antico, sente sempre più
nell'avversario un assurdo compagno, un intimo nemico.
Non è la
smania di potere a muovere i protagonisti della vicenda: le loro gesta li fanno
simili ad «artisti pazzi intestarditi a indorare l'oro, o a tinger di bianco i
gigli»; non sono il denaro o la prospettiva di nuovi possedimenti a guidarne
l'agire, ma il senso etico ed estetico dell'onore e del ridicolo. Conrad ci
ricorda che «[n]essuno riesce in tutto ciò che intraprende. In questo senso non
c'è chi non sia, in qualche misura, un fallimento». Il continuo fallire della
sfida tra Feraud e D'Hubert è allora lo specchio su cui le imprese militari del
loro tempo possono riconoscere il proprio volto: un destino immobile, una sfida
inutile nella sua tragicità. Una sfida che proprio per la sua enormità e per la
cieca ostinazione dei contendenti che la animano, non può che interrogare i
commilitoni e tutti coloro che ne sentano il cupo e grottesco riecheggiare: perché?
– si chiedono questi. Così è fatto l'uomo, che dove non vede ragioni le inventa
e sa accettare solo storie che abbiano un inizio e una fine. Conrad però è lo
scrittore che ha saputo raccontare i momenti di passaggio, le linee d'ombra e
le vie di fuga, alla ricerca di una dimensione autentica dell'esistere –
racconti narrati col volto girato all'indietro, a guardare il passato, come a
cercare una fine per ciò che non ha principio. Non poteva non accadere anche
all'inutile duello tra Feraud e D'Hubert che la ragionevolezza dei molti –
commilitoni, generali e sottoposti – cercasse un motivo nel loro insensato
rincorrersi e sfidare la morte.
Non trovando
quel motivo, lo immaginarono misterioso, tragico – ingombrante nell'essere
assente. E invece non c'erano che due uomini, due tra quelli che in quindici
anni di guerra e morte erano sempre riusciti a tornare – eppure stare non
potevano, perché una sfida intima e inutile li univa. Una sfida in cui far
risuonare le promesse della giovinezza. Per gustare ancora il sapore vago,
intenso di una linea d'ombra.
M.P.
Da leggere J. Conrad, Il duello (1908); J.
Conrad, La linea d'ombra (1917)
Da ascoltare PJ Harvey, Let England Shake (2010)
Da vedere R. Scott, I duellanti (1977)
Da bere Riesling Alsaziano (2010)
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