«Ascolta: “impegolato nel vischio c’era un povero piccione, uno di quei grigi colombi cittadini, abituati alla folla e al frastuono delle piazze. Svolazzando intorno, altri piccioni lo contemplavano tristemente, mentre cercava di spiccicare le ali dalla poltiglia su cui s’era malaccortamente posato.”
Questa storia mi ricorda mio papà..quella volta dell’ospedale, ti ricordi che ridere? E il comodino? E le briciole sui coppi? Ti ricordi?»
«Certo che mi ricordo» gli rispose la moglie.
«Quale piccione?! Papà! Quale piccione?!»
«Mi sono vergognata tanto quella volta...»
«Papà, quale piccione?» chiese insistentemente la bambina.
Ma guardiamola meglio questa bambina, zoomiamo, eccola: occhi blu; no, grigi; capelli castano chiaro, frangetta, denti un po’ storti. Sorride: gliene mancano almeno due per arcata, sia a destra che a sinistra. È davvero una bella bambina.
«Ma come? Non sai la storia del piccione? È sempre la stessa, non ho voglia di raccontarla ancora. Questa volta ascoltiamola da chi già la conosce per bene...»
«Però non devi interrompere come al solito, papà» sentenziò la bambina.
Per poter raccontare la storia del piccione è necessario tornare indietro di molti anni. Era il 1992 quando un anziano signore, un nonno per la precisione, nonno Toni, venne ricoverato in ospedale. Doveva essere operato al cuore. Non era un’operazione troppo preoccupante o invasiva, però si sapeva che il vecchino sarebbe dovuto rimanere nella stanza numero 18 del settimo piano del Sant’Angelo per diversi giorni. La sua preoccupazione più grande era la piccionaia che aveva da poco costruito nel giardino che stava dietro casa; vicino all’orto. Questo nonno Toni aveva fatto la guerra e patito la fame; così, quando gli capitava di riuscire a catturare un piccione, lo chiudeva tra quelle quattro mura di legno da cassetta della frutta e plastica verde del cortile, lo nutriva con un po’ di briciole, qualche avanzo e, rimpolpate un po’ le cosce, tan! gli tirava il collo!
«Pensati che salendo sulla 500 color ocra per andare in ospedale, tuo nonno continuava a ripetermi “mi raccomando, i piccioni!”»
Mentre Toni era ricoverato in ospedale ai piccioni non accadde nulla di strano, ma egli continuava a vivere col timore di tornare dopo qualche giorno alla sua piccionaia e di trovarvi un mausoleo, o peggio, di non trovarvi nulla. Venne il giorno dell’operazione, venne il giorno seguente l’operazione e quello dopo ancora; il paziente della stanza numero 18 del settimo piano del Sant’Angelo stava bene: “è andato tutto per il meglio” dicevano i medici, “ma deve riposare”; soprattutto il buon nonno Toni non doveva muoversi troppo.
Una mattina accadde che Toni venne trovato dalle infermiere intento a fare il verso a dei colombi che si aggiravano sul suo davanzale. Il povero nonno venne rimproverato da tutti e da quel giorno cambiò atteggiamento.
«Subito pensavamo che si fosse offeso, anche tua nonna era preoccupata, non riusciva a capirlo. Voleva sempre stare da solo» aggiunse il padre ascoltando il racconto divertito.
Capitava che dopo il lavoro la moglie, i figli, i nipoti più grandi o qualche amico andasse a trovarlo ma lui, soprattutto se era ora di pranzo, li sbolognava in fretta con le scuse più ridicole.
«E un pomeriggio lo vidi! Era davanti alla finestra. Era gennaio e faceva freddissimo, ma lui stava in pigiama davanti alla finestra aperta a lanciare briciole ai colombi...»
«Papà! Non devi interrompere!» proruppe la bambina.
Toni era davanti a quelle finestre e fissava i colombi, quando il più sventurato si avvicinò al nonno e lui, sporgendosi, riuscì ad afferrarlo. La gioia, la speranza e anche un po’ di freddo ridiedero colore al volto stinto del vecchino: col piccione tra le mani corse all’armadio. Lo fissò, probabilmente pensando di poterci nascondere l’uccello, ma quasi subito virò verso il bagno per cercarvi un posto più sicuro. Tornò fuori col piccione ancora in mano, si guardò attorno ormai privo di speranze e andò a sbattere con la gamba destra contro la porticina del comodino di latta verde e bianco di fianco al letto. Ebbe un lampo di genio, lo svuotò delle tre cose che aveva e ci ficcò dentro l’uccello. Era fatta! Tirò un sospiro di sollievo, ma ecco che in quel momento entrò il figlio maschio che aveva assistito a tutta la scena. Scoppiò il pandemonio: subito ci furono le risate, grasse risate seguite da mal di milza per lo sforzo e quasi da asma per la mancanza di fiato; poi però il giovane proruppe con un “devi lasciare il piccione” e cominciò ad elencare al vecchio nonno tutti i motivi per cui non avrebbe potuto tenere l’uccello nascosto dentro il comodino. Il nonno Toni non ne voleva sapere, si avvicinò con l’indice destro alzato alla punta del naso del figlio e gli sussurrò “se liberi il piccione ti diseredo!”, non rideva. I due si guardarono e il figlio scoppiò in un’altra risata fragorosissima cui accorsero la nonna e la nuora. Si tentò di nascondere loro cos’era successo, ma dal comodino arrivavano rumori stranissimi. La finestra della camera ancora aperta, il pezzo di pane sul davanzale, gli sbattiti d’ali contro le pareti di latta che risuonavano nella camera fecero spalancare la bocca della vecchia nonna: “non ci credo” disse. Calò il silenzio.
Si sentivano delle voci dietro la porta della stanza, delle rotelle, erano le rotelle di un letto d’ospedale. Sì, quel pomeriggio doveva arrivare il compagno di stanza del nonno Toni. Il figlio corse a chiudere la finestra, lanciò il pezzo di pane e tirò la tenda. Il vecchino si sdraiò a letto senza dire una parola. Entrarono le infermiere col nuovo paziente seguite da due donne. I quattro abbozzarono un sorriso. Era il panico, che figura avrebbero mai fatto se si fosse trovato un piccione dentro il comodino?! Bisognava liberarsene il più in fretta possibile, ma il proposito si rivelò piuttosto arduo a mantenersi. Il signore, tale L. Bosio, era fermo a letto e, per quanto le accompagnatrici e le infermiere avessero l’aria di andare di fretta, egli sarebbe sicuramente rimasto lì per diverse ore. L’uccello chiuso dentro il comodino continuava a sbattere le ali e i presenti nella stanza tradivano con evidenza una certa perplessità. Quando, fortunatamente dopo poco tempo -che ai quattro parve lunghissimo-, le presenze femminili si dileguarono, la nonna si decise e finse di voler portar via della biancheria sporca chiusa dentro il comodino. Come si può facilmente immaginare l’impresa fu alquanto problematica, ma grazie alla collaborazione del figlio e della nuora il piccione venne avvolto in una maglietta -povero animale era ancora vivo- e portato di gran fretta fuori dall’ospedale. “Ancora una cosa..” aveva detto il buon vecchio nonno Toni alla moglie “ormai che ci sei, portalo a casa e chiudilo nella piccionaia”. Lei, che lo amava più di tutto al mondo, fece anche quello: tornò alla sua abitazione con un piccione semi-vivo avvolto in una maglietta e lo liberò nella piccionaia del giardino dietro casa.
«Aspetta aspetta, non è ancora finita per il piccione» disse il padre alla bambina.
Quando la nonna liberò l’animale dovette prendere atto del fatto che l’uccello era ormai esanime; vegetava in uno stato che altalenava tra la vita e la morte. Bisognava farla finita, ma come fare? Di ‘quelle cose’ si era sempre occupato il vecchio nonno Toni e lei non se la sentiva veramente di tirare il collo a quel piccione. Così le venne in mente la vicina di casa, tale Gina che, vedova ormai da diversi anni, era solita arrangiarsi anche per quelle questioni. Bussò alla sua porta: “ti prego fai tu perché io non ci riesco”, le disse. La vecchia Gina afferrò il piccione, la mano sinistra per le gambe, la destra per il collo. Tirò. La vecchia Gina tirò con troppa forza. Il collo del piccione si ruppe, sì si ruppe sicuramente, ma con esso si staccarono anche le zampette del povero animale. Impietrita la nonna guardava la vecchia Gina con la testa del piccione nella mano destra e le zampette nella sinistra: “Almeno non ha sofferto” esordì la vecchia Gina.
«Ah ah ah! Papà, ma davvero è andata così?? E poi il nonno è rimasto contento almeno?»
«Tuo nonno restò in ospedale per un’altra settimana e quando tornò a casa il piccione era già stato mangiato da diversi giorni. Non se ne accorse neanche; aprendo la piccionaia scoprimmo che non sapeva nemmeno quanti piccioni avrebbe dovuto avere..»
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