“Taci, anima stanca di godere
e di soffrire (all’uno e all’altro vai rassegnata).”
E’ così che si apre Pianissimo (1914), la maggiore raccolta di poesie di Camillo Sbarbaro.
E’ un imperativo alla propria anima di spogliarsi di ogni emozione, di azzittire la propria volontà, di denudarsi da ogni orpello sentimentale o indugio emotivo.
“[...] camminiamo io e te come sonnambuli./ E gli alberi son alberi, le cose/ sono cose, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è”.
E’ come se non ci fosse più nulla dietro il manifestarsi delle cose, come se ogni significante avesse perso il suo significato.
Non c’è più un senso altro, profondo, ma “tutto quello che è, è soltanto quello che è”.
E’ un vero e proprio processo di “mineralizzazione”, di riduzione all’osso dei sentimenti.
“Perduto ha la voce/ la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto”.
Alla fine rimane solo un “grande deserto”, una desolazione dell’animo.
L’uomo è trasformato in pietra:
“A queste vie simmetriche e deserte/ a queste case mute sono simile./
Partecipo alla loro indifferenza, alla loro immobilità./ Mi pare [...] d’esser fatto di pietra come loro”.
La sensazione che dà la poesia di Sbarbaro è proprio quella di un graduale scavare e “rodere” la carne e il grasso e tutto ciò che c’è di “succulento” attorno all’osso delle cose.
La vita è spogliata di ogni carezzevole suppellettile, di ogni decoro o illusione.
Ma tolta ogni finzione, ogni speranza
Cosa rimane?
G.D.C
Lettura consigliata: Camillo Sbarbaro, "Pianissimo" 1914/1954 ed. Neri Pozza, Venezia 1954
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