“Prima ti faccio un buco in faccia, poi rientro in casa e dormo come un pupo. Puoi starne certo. Con le caccole come te ci facevamo i muretti in Corea, i sacchetti di sabbia”
Lunedì 20 febbraio 2012, per la prima volta, ho guardato e amato Gran Torino, film del 2008 diretto da Clint Eastwood. L’ho veramente apprezzato. È stato così che il culto per questa “maschera”, come Sergio Leone ha definito l’attore, è riaffiorato focosamente riportandomi alla memoria I ponti di Madison County. Ora non ricordo precisamente la data in cui lo vidi per la prima volta, fu all’incirca un anno fa, ma ricordo che mi scatenò dentro un cocktail, misto di commozione-turbamento-patetica immedesimazione-fame e una singolare cascata di liquido acqueo prodotto dall’apparato lacrimale, che segnò la mia emotività per diverso tempo.
Un flashback ci riporta indietro dal 1987 al 1965.
1987: il testamento di una madre, Francesca, letto dai due figli. La sorpresa nel trovarvi la richiesta di farsi cremare e di far spargere le ceneri del proprio corpo dal ponte Rosmin. L’incredulità e la convinzione dell’aver a che fare con il desiderio di una pazza. Dei vecchi diari che raccontano la storia del suo tradimento.
1965: fiera annuale dell’Illinois, i figli e il marito Richard staranno via per quattro giorni. Sola in casa, Francesca fa la conoscenza di Robert, fotografo del National Geographic, e lo accompagna fino ai ponti. Tra i due c’è alchimia, lei è un po’ impacciata, ride. In breve si lasciano andare alle confidenze, lui le pone delle domande invadenti e inopportune, lei risponde: suo marito è uno “pulito” e la sua vita “non è quella che aveva sognato da ragazza”, ma “i vecchi sogni erano bei sogni, non si sono avverati, comunque li ho avuti”. Se lei tende sempre a sminuirsi, a considerare la sua esistenza come fatta di piccole cose, dedicata alla crescita dei figli, intaccata dalla malinconia nel sapere che un giorno si sarebbero allontanati di casa e che ormai sarebbe stato troppo tardi per ricordarsi come fare a vivere; Robert invece si definisce un cosmopolita che riesce sempre a non sentirsi solo e che giudica la società “limitata”.
In mezz’ora di film i due sconosciuti si avvicinano progressivamente fino a costruire una relazione che in breve giunge al termine per l’imminente ritorno della famiglia a casa. Da questo punto in poi è palpabile l’angoscia della divisione, la certezza quasi che stando insieme avrebbero perso ciò che quei quattro giorni avevano regalato loro e distrutto una famiglia, ma anche che dividendosi avrebbero reso speciale il tempo passato assieme. Si salutano sapendo però che Robert sarebbe rimasto in città ancora un po’. Lei affoga la tristezza nelle faccende domestiche, “ salvagente in ricordo di quei quattro giorni”, lasciando passare le ore e i giorni. Fino a quando, in una giornata di pioggia, Francesca e Robert si rivedono, lei sembra pronta a scendere dalla macchina del marito per andarsene con lui, ma scatta il verde e Robert parte. È questa la scena del film che più ferisce, addolora, lacera. Da quel momento in poi i due non si rivedranno mai più. Mai più. Dopo la scomparsa del marito Francesca lo cerca, ma non riesce a saperne nulla fino a quando non viene a conoscenza della sua morte. Le viene fatto recapitare un pacco in cui sono contenuti i loro ricordi, tra questi Francesca trova un libro di fotografie dedicato a F.: “Four days”. Straziante, molesto, spiacevole nel senso proprio del termine, questo film ha segnato la “mia emotività per diverso tempo”.
Gli scheletri nell’armadio che io ho ritrovato in molti film di Clint Eastwood mortificano, scalfiscono, percuotono.
Come Changeling, del 2008, in cui Walter Collins viene rapito e la madre Christine, decisa a non arrendersi, sfida il sistema e la polizia venendo chiusa in manicomio per diverso tempo. Oppure Million Dollar Baby, del 2004, in cui il freddo allenatore Frankie Dunn chiama l’allieva Maggie: ‘Mo Cùishle’, mio sangue, mio tesoro. Oppure Gunny dell’86 in cui l’agente Tom, brusco ed irrispettoso delle regole, decide di riconquistare la moglie e riesce a ottenere la stima dei suoi marines. E questi sono solo i primi che mi vengono in mente, si potrebbe citare anche la saga con protagonista l’ispettore Callaghan, nel quarto episodio innamorato della donna che si sta vendicando del gruppo di persone che l’avevano violentata da bambina. Oppure I ponti di Madison County: “Il mio unico legame con lui erano i posti in cui eravamo stati insieme in quei quattro giorni: così ogni anno per il mio compleanno li ho rivisitati...Non trascorse mai un solo giorno senza che pensassi a lui”. Molesto è l’aggettivo giusto.
visione consigliata: I ponti di Madison County (The Bridges of Madison County), Clint Eastwood, USA - 1995
Gran Torino, Clint Eastwood, USA - 2008
S.T.
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