Il messaggero arrivò alle porte di Roma esausto, novello Fidippide portava una comunicazione di massima importanza al Senato; quello, portava notizie di vittoria agli Ateniesi; questo, tutt’altro. L’esercito romano aveva subìto una sconfitta di proporzioni inedite nella battaglia di Canne. Il console Lucio Emilio Paolo era stato ucciso e l’altro console Gaio Terenzio Varrone era stato messo in fuga con pochi superstiti, tutto ciò ad opera di un uomo che provava un odio mortale contro Roma: Annibale Barca. La notizia non tardò a diffondersi, e fu subito panico; mai Roma, dai tempi dell’invasione barbara ad opera di Brenno nel 390 a.C. era stata così seriamente minacciata, mai popolo ebbe così paura di un uomo solo. Già dal 219 a.C. , con l’assedio di Sagunto, i romani avevano iniziato a prendere familiarità con il nome di Annibale, ma tutto ciò era solo un’eco lontana che riguardava la penisola iberica, il popolo si sentiva al sicuro dentro le proprie mura e protetto da un esercito senza eguali. I primi timori iniziarono con l’avanzata dell’esercito cartaginese guidato da Annibale nei territori presidiati al tempo dalle tribù celtiche e galliche, che poca resistenza avevano potuto opporre contro l’imponente armata. Più di tutti avevano stupito i 37 elefanti, che da soli incutevano una tale paura da far scappare le accozzaglie barbare, le quali di fronte a questi mostri credevano di essere vittime di qualche punizione divina . Nemmeno il Rodano in piena era riuscito a fermare gli imponenti animali, tanto che Annibale aveva dato prova della sua furbizia attraverso un inganno: aveva fatto posizionare delle enormi zattere che attraversavano il fiume ricoperte di selci, arbusti e alberi, tenute ferme da zavorre di modo che gli elefanti non si accorgessero nemmeno di attraversare un fiume in piena. La marcia era poi proseguita alla volta delle Alpi, catena montuosa ritenuta invalicabile specialmente per il periodo in cui l’esercito di Annibale aveva intrapreso la scalata, l’inizio dell’inverno. Ma Annibale sembrava essere un dono degli dei per i propri soldati, sempre pronto a incoraggiare, a dare l’esempio e a soffrire le stesse privazioni dei propri uomini. Non tutti però riuscirono a vedere le fertili pianure dell’Italia, tanto che tutti gli elefanti eccetto uno perirono nella traversata o immediatamente dopo.
L’Italia. Fin da bambino Annibale sognava questo momento, ed ora che davanti a sé si stagliavano le fertili terre della penisola un solo pensiero, sempre quello, gli martellava come un chiodo nel cervello: distruggere l’odiata Roma. Le vittorie si susseguirono una dopo l’altra, schiaccianti, umilianti, dalla Trebbia a Canne passando per il Trasimeno. Ormai la popolazione romana era in preda al panico, rassegnata non sacrificava nemmeno più agli dei, e ogni mattina uomini, donne e bambini si svegliavano con il terrore di ricevere la notizia di una nuova vittoria dell’esercito cartaginese. Il Senato non sapeva più come affrontare il problema, fino a che un giovane di polso prese in mano la situazione: il suo nome era Publio Cornelio Scipione, noto successivamente come l’Africano. Il destino di Roma dipendeva ora da lui.
Nel frattempo Annibale continuava a razziare la penisola italica, ma non si decideva a sferrare l’attacco decisivo verso Roma. Nonostante l’odio provato, egli ben sapeva con chi aveva a che fare, conscio del fatto che senza un appoggio da parte della madrepatria (il governo di Cartagine non aveva approvato la spedizione di Annibale considerandola un’impresa privata) un assedio alla città più importante del mondo sarebbe stato insostenibile. Inoltre, l’esercito romano sembrava un’Idra a cui per ogni testa tagliata ne rinasceva un’altra ancora più forte e vigorosa. Scipione decise di opporsi ad Annibale usando la stessa arma di cui il cartaginese aveva maggiormente fatto uso: la furbizia.
L’Italia. Fin da bambino Annibale sognava questo momento, ed ora che davanti a sé si stagliavano le fertili terre della penisola un solo pensiero, sempre quello, gli martellava come un chiodo nel cervello: distruggere l’odiata Roma. Le vittorie si susseguirono una dopo l’altra, schiaccianti, umilianti, dalla Trebbia a Canne passando per il Trasimeno. Ormai la popolazione romana era in preda al panico, rassegnata non sacrificava nemmeno più agli dei, e ogni mattina uomini, donne e bambini si svegliavano con il terrore di ricevere la notizia di una nuova vittoria dell’esercito cartaginese. Il Senato non sapeva più come affrontare il problema, fino a che un giovane di polso prese in mano la situazione: il suo nome era Publio Cornelio Scipione, noto successivamente come l’Africano. Il destino di Roma dipendeva ora da lui.
Nel frattempo Annibale continuava a razziare la penisola italica, ma non si decideva a sferrare l’attacco decisivo verso Roma. Nonostante l’odio provato, egli ben sapeva con chi aveva a che fare, conscio del fatto che senza un appoggio da parte della madrepatria (il governo di Cartagine non aveva approvato la spedizione di Annibale considerandola un’impresa privata) un assedio alla città più importante del mondo sarebbe stato insostenibile. Inoltre, l’esercito romano sembrava un’Idra a cui per ogni testa tagliata ne rinasceva un’altra ancora più forte e vigorosa. Scipione decise di opporsi ad Annibale usando la stessa arma di cui il cartaginese aveva maggiormente fatto uso: la furbizia.
Difendere Roma attaccando Cartagine. Questa fu la tattica di Scipione, nonostante le perplessità del Senato romano; l’assedio di Cartagine fu breve, Annibale fu costretto a malincuore a ritornare a difendere la propria patria, sapendo che mai più avrebbe potuto distruggere Roma. Ora, nel 202 a.C. dopo 17 anni di razzie e vittorie Annibale si trovava in difficoltà; a Zama, alla periferia di Cartagine i due eroi del tempo si incontrarono in una tenda in un faccia a faccia epico, ma le parole, nonostante la stima reciproca dei due avversari, non portarono a nulla. La battaglia fu inevitabile, e per la prima volta dopo lunghi anni Annibale fu sconfitto e costretto a fuggire. Roma e il suo popolo potevano tornare a dormire sonni tranquilli.
Annibale, spettro di sé stesso ed esiliato dalla madrepatria, vagò per l’Asia minore ancora per qualche anno, al soldo del sovrano di turno. Decise di avvelenarsi con le proprie mani per paura di essere preso vivo dai romani.
M.F.
Letture consigliate: Gianni Granzotto, Annibale, Mondadori.
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