cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

mercoledì 31 ottobre 2012

Twin Peaks: Fire Walk With Me

Uno sconvolgente viaggio nei meandri della paura.

Da piccolo ricordo che i miei fratelli più grandi si lamentavano tutte le sere perché venivano spediti a letto appena cominciava la sigla, diretta ed eseguita magistralmente da Angelo Badalamenti, del telefilm culto degli anni ’80.

Di quel periodo mi vengono spesso in mente i pomeriggi che passavano con gli amici a parlare – tra una partita e l’altra all’Amiga Commodore – di questa Laura Palmer. “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, sentivo spesso dire.



Da questa domanda parte lo straordinario telefilm I Segreti di Twin Peaks, firmato da David Lynch e Mark Frost, andato in onda per la prima volta l’8 aprile 1990 sul network americano Abc. La serie inizia come un semplice thriller: nella città di Twin Peaks viene ritrovata morta Laura Palmer,
interpretata da Sheryl Lee, reginetta del Liceo.

L’agente dell’FBI Dale Cooper (Kyle MacLachan) comincia a seguire il caso, un caso apparentemente di routine, fin quando non si ritrova inghiottito da un vortice di pazzia. Le indagini portano alla scoperta dell’omicida ma entrano in campo strane forze della natura, giganti che indicano a Cooper la strada da seguire, strani nani che ballano e parlano in maniera incomprensibile,
per non parlare delle magiche forze del bosco di Twin Peaks.

Ai personaggi della serie vengono affidati momenti di lucidità e chiarezza ed altri di puro squilibrio o confusione.

La Signora Ceppo, a prima vista può apparire come un personaggio di contorno, nato dalla pura fantasia del geniaccio di Lynch, in realtà col proseguo della storia la Signora diviene punto cardine della storia. “Molte cose non posso dire. Notate solo che il mio camino è sbarrato. Non ci sarà mai un fuoco là. Il mio ceppo sente cose che io non posso sentire, ma il mio ceppo mi rivela delle cose. Mi dice delle nuove parole. Anche se ha smesso di crescere il mio ceppo è cosciente”.

Per non parlare dell’agente FBI di X-Files (David Duchovny) a sua volta in Twin Peaks agente federale...donna
.

Lo stesso David Lynch incarna l’agente speciale Gordon Cole
costretto ad utilizzare degli speciali auricolari che gli permettono di sentire ma che lo costringono ad urlare mentre parla.



Nella serie si ripetono spesso scene kitsch sul cibo, l’agente Dale Cooper ha una vera e propria venerazione per il caffè e per la “speciale” torta di ciliegie. Il tutto è frutto di una elegantissima ricerca del regista che sottolinea ironicamente tutti i vizi sul cibo e sull’alimentazione americana, nonché gli stereotipi del poliziotto americano “ciambella e caffè”. “Harry, voglio darti un consiglio prezioso. Una volta al giorno, tutti i giorni, fatti un piccolo regalo. Non programmarlo e non andarlo a cercare ma... lascia che arrivi. Può essere una camicia vista in un negozio, un sonnellino nel tuo ufficio oppure... due ottime tazze di caffè nero fumante”.

Il personaggio che però mi è rimasto impresso nella mente maggiormente è Bob. Interpretato da Frank Silva, morto di Aids nel settembre del ’95, Bob è una presenza inavvertibile, uno spirito, un’anima a Twin Peaks. Nessuno l’ha mai visto ma tutti riescono a percepirlo.




Frank non lavorava nemmeno come attore, era uno scenografo. Durante le riprese della puntata pilota Lynch l’ha intravvisto chinato vicino ad un letto e ha deciso di inserirlo nella serie nella medesima posizione, vicino al letto. I vestiti sono gli stessi che portava quel giorno.



Bob è stato (forse rimane ancora) il personaggio più pauroso della televisione. Silva ha dato vita ad un personaggio che spaventa tantissimo con mimica facciale, urla e espressioni degli occhi.



I miei fratelli in qualche modo sono riusciti a vedersi tutte le puntate a suo tempo, grazie a videocassette scambiate fra i banchi di scuola, io invece le ho viste e riviste in streaming (come sono cambiati i tempi!) e ,da qualche anno a questa parte, ogni tanto mi piace rivederle ancora.

Seduto sul divano con una buona tazza di caffè nero fumante e tremante di paura.



Il mio piccolo regalo giornaliero.


A.L.




Visione Consigliata: I segreti di Twin Peaks, Daviv Lynch, Mark Frost (1990)
Twin Peaks: Fire Walk With Me, David Lynch (1992)

L’incubo di Roma.

Il messaggero arrivò alle porte di Roma esausto, novello Fidippide portava una comunicazione di massima importanza al Senato; quello, portava notizie di vittoria agli Ateniesi; questo, tutt’altro. L’esercito romano aveva subìto una sconfitta di proporzioni inedite nella battaglia di Canne. Il console Lucio Emilio Paolo era stato ucciso e l’altro console Gaio Terenzio Varrone era stato messo in fuga con pochi superstiti, tutto ciò ad opera di un uomo che provava un odio mortale contro Roma: Annibale Barca. La notizia non tardò a diffondersi, e fu subito panico; mai Roma, dai tempi dell’invasione barbara ad opera di Brenno nel 390 a.C. era stata così seriamente minacciata, mai popolo ebbe così paura di un uomo solo. Già dal 219 a.C. , con l’assedio di Sagunto, i romani avevano iniziato a prendere familiarità con il nome di Annibale, ma tutto ciò era solo un’eco lontana che riguardava la penisola iberica, il popolo si sentiva al sicuro dentro le proprie mura e protetto da un esercito senza eguali. I primi timori iniziarono con l’avanzata dell’esercito cartaginese guidato da Annibale nei territori presidiati al tempo dalle tribù celtiche e galliche, che poca resistenza avevano potuto opporre contro l’imponente armata. Più di tutti avevano stupito i 37 elefanti, che da soli incutevano una tale paura da far scappare le accozzaglie barbare, le quali di fronte a questi mostri credevano di essere vittime di qualche punizione divina . Nemmeno il Rodano in piena era riuscito a fermare gli imponenti animali, tanto che Annibale aveva dato prova della sua furbizia attraverso un inganno: aveva fatto posizionare delle enormi zattere che attraversavano il fiume ricoperte di selci, arbusti e alberi, tenute ferme da zavorre di modo che gli elefanti non si accorgessero nemmeno di attraversare un fiume in piena. La marcia era poi proseguita alla volta delle Alpi, catena montuosa ritenuta invalicabile specialmente per il periodo in cui l’esercito di Annibale aveva intrapreso la scalata, l’inizio dell’inverno. Ma Annibale sembrava essere un dono degli dei per i propri soldati, sempre pronto a incoraggiare, a dare l’esempio e a soffrire le stesse privazioni dei propri uomini. Non tutti però riuscirono a vedere le fertili pianure dell’Italia, tanto che tutti gli elefanti eccetto uno perirono nella traversata o immediatamente dopo.

L’Italia. Fin da bambino Annibale sognava questo momento, ed ora che davanti a sé si stagliavano le fertili terre della penisola un solo pensiero, sempre quello, gli martellava come un chiodo nel cervello: distruggere l’odiata Roma. Le vittorie si susseguirono una dopo l’altra, schiaccianti, umilianti, dalla Trebbia a Canne passando per il Trasimeno. Ormai la popolazione romana era in preda al panico, rassegnata non sacrificava nemmeno più agli dei, e ogni mattina uomini, donne e bambini si svegliavano con il terrore di ricevere la notizia di una nuova vittoria dell’esercito cartaginese. Il Senato non sapeva più come affrontare il problema, fino a che un giovane di polso prese in mano la situazione: il suo nome era Publio Cornelio Scipione, noto successivamente come l’Africano. Il destino di Roma dipendeva ora da lui.

Nel frattempo Annibale continuava a razziare la penisola italica, ma non si decideva a sferrare l’attacco decisivo verso Roma. Nonostante l’odio provato, egli ben sapeva con chi aveva a che fare, conscio del fatto che senza un appoggio da parte della madrepatria (il governo di Cartagine non aveva approvato la spedizione di Annibale considerandola un’impresa privata) un assedio alla città più importante del mondo sarebbe stato insostenibile. Inoltre, l’esercito romano sembrava un’Idra a cui per ogni testa tagliata ne rinasceva un’altra ancora più forte e vigorosa. Scipione decise di opporsi ad Annibale usando la stessa arma di cui il cartaginese aveva maggiormente fatto uso: la furbizia.


Difendere Roma attaccando Cartagine. Questa fu la tattica di Scipione, nonostante le perplessità del Senato romano; l’assedio di Cartagine fu breve, Annibale fu costretto a malincuore a ritornare a difendere la propria patria, sapendo che mai più avrebbe potuto distruggere Roma. Ora, nel 202 a.C. dopo 17 anni di razzie e vittorie Annibale si trovava in difficoltà; a Zama, alla periferia di Cartagine i due eroi del tempo si incontrarono in una tenda in un faccia a faccia epico, ma le parole, nonostante la stima reciproca dei due avversari, non portarono a nulla. La battaglia fu inevitabile, e per la prima volta dopo lunghi anni Annibale fu sconfitto e costretto a fuggire. Roma e il suo popolo potevano tornare a dormire sonni tranquilli.

Annibale, spettro di sé stesso ed esiliato dalla madrepatria, vagò per l’Asia minore ancora per qualche anno, al soldo del sovrano di turno. Decise di avvelenarsi con le proprie mani per paura di essere preso vivo dai romani.



M.F.




Letture consigliate: Gianni Granzotto, Annibale, Mondadori.

La paura fa '90

Nel 2011, dopo dieci anni di assenza, tornano sulle scene musicali i Bush con il loro nuovo lavoro, The Sea Of Memories. La band inizia un grande tour in America e in Europa per promuovere il disco.



Bene, pensai. «La faranno una maledetta data anche in Italia, così finalmente li vedrò dal vivo». E un giorno ecco finalmente la notizia: i Bush suoneranno all'Alcatraz di Milano il 5 settembre. Felicità, e paura. Sì, paura.



Non siamo più negli anni in cui i Bush esordivano con un disco, Sixteen Stone, in grado di unire melodie orecchiabili ad un sound sporco, robusto, tipicamente grunge. Non siamo più negli anni in cui Gavin Rossdale, giovane e pieno di carisma, cantava con voce roca “Don't let the days go by, Glycerine”. Non siamo più negli anni in cui ai concerti si andava per ascoltare il proprio gruppo del cuore. Non siamo più negli anni in cui, alla canzone più bella, si tirava fuori l'accendino dalla tasca dei jeans. Non siamo più negli anni in cui la musica era anche uno stile di vita, un credo, un tutto.

Siamo negli anni in cui ai concerti si va perché fa figo andarci. Siamo negli anni in cui invece degli accendini ai concerti si porta l'ultimo modello di iphone. Siamo negli anni in cui ad un live ciò che è fondamentale fare sono delle foto da postare sul proprio social network. Siamo negli anni in cui per andare ad un concerto si devono sborsare anche 70 euro.



Gli anni '90 sono finiti. Gli anni dei Nirvana, degli Smashing Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Sonic Youth, dei Bush sono finiti. I concerti di una volta non ci sono più, e bisogna farsene una ragione. E io me la sono fatta, ecco perché pur sapendo benissimo che i Bush del 2012 non sono i Bush del 1994, ho rischiato. Ho comprato il biglietto e sono andata fino a Milano per vederli.

Avevo paura, paura di dover dare ragione a quegli amici che mi avevano detto «Che cazzo vai a vedere i Bush adesso? Non ha senso, Gavin non avrà un filo di voce». Avevo paura di rimanere delusa.



I miei amici si sbagliavano, eccome se si sbagliavano. Sono in prima fila. I Bush entrano e aprono il concerto con Machinehead. La fanno perfettamente. Sono in gran forma. Mi viene quasi da piangere. Gavin è gentilissimo, si rivolge al pubblico ringraziandolo e dicendo che è consapevole che la maggior parte dei presenti non ha neppure ascoltato il nuovo lavoro e li invita a farlo. Io, lo ammetto, sono tra quelli. Fanno un paio di canzoni del nuovo disco, ma tutta l'attenzione è per i grandi successi degli anni '90: Swallowed, Alien, Little Thing, Prize Fighter, Greedy Fly, Comedown e, naturalmente, Glycerine. Appena il pubblico sente attaccare questi pezzi storici va in delirio, sintomo che non sono l'unica a provare nostalgia per quel poco degli anni '90 che sono riuscita a vivere. Il concerto finisce e io sono sotto shock. Un live del genere non me lo aspettavo. Gavin saluta il pubblico ringraziandolo ancora una volta ed esprimendo la sua gioia per essere tornato a suonare in Italia. Scende dal palco, ha in mano due plettri. Uno lo dà ad un ragazzo che per tutto il concerto non aveva smesso un attimo di cantare. Poi si gira e viene dalla mia parte. «Lo darà sicuramente alla ragazza con le tette fuori vicino a me» pensai. Non avevo neanche allungato la mano più di tanto. E invece Gavin viene proprio da me, mi apre la mano, dove mette il plettro, e me la richiude. In quell'istante mi sembrò che per un attimo, solo un attimo, gli anni '90 non fossero mai finiti.




D.C.



Ascolto Consigliato: Bush, Sixteen Stone (1994)

Stoccolma, che paura!

Arriviamo a Stoccolma, ci perdiamo, sbagliamo l’uscita della stazione dei treni –è grandissima-, piove, siamo felici, ci guardiamo attorno e tutto è solo incantevole. Piove tantissimo e noi siamo gongolanti, pimpanti. Camminiamo, attraversiamo un ponticello ed entriamo nella ‘città vecchia’, a ‘Gamla Stan’. Avevamo letto che ‘il modo migliore per visitare Gamla è quello di lasciarsi trasportare fuori strada dall’improvvisa apertura di un vicolo tra due case così da scoprire angoli inattesi; seguire lo snodarsi tortuoso delle stradine fino a piazzette piene di atmosfera’; noi ci siamo lasciate vincere dalla suggestione di quei viottoli così piottoreschi ed eleganti finchè siamo approdate al Palazzo Reale. E lì, di fronte a quell’enorme edificio, abbiamo quasi avuto PAURA. Giriamo un po’ quando quasi ci scontriamo con due enormi leoni di pietra a fiancheggiarne l’ingresso; vorremmo entrarci ma sono già le sei e mezza e qui chiude tutto alle cinque. Continuiamo con la nostra avanscoperta ed arriviamo a ‘Stortorget’, piazza dove nel 1520 avvenne il ‘bagno di sangue’ di Stoccolma, in occasione del quale furono uccisi gli 82 nazionalisti che si dichiararono contrari all’unione con la Corona danese. Per quanto ‘macabra’ sia la sua storia, questo cantuccio di Stoccolma non mette PAURA; c’è una bella fontana, il Museo dei premi Nobel, i palazzi in stile classico; tutto è imponente e ‘serio’, ma le pasticcerie e i caffè riescono a smussare il tono degli edifici.

Anche se lo zaino non pesa poi così tanto le spalle cominciano a dolermi, Giulia non parla più, si guarda attorno e di quando in quando lancia un gridolino di contentezza. Cominciamo a cercare seriamente la via dell’ostello in cui dovremmo fermarci a dormire, cerco di orientarmi dalla cartina ormai inzuppata di pioggia quando sento: ‘sorryyy..’ e bla bla bla. Ha fermato un enorme signore sulla cinquantina, parlano parlano parlano e lui non la lascia più; faccio quasi per svignarmela, ma lei mi chiama e di nuovo mi torna quel senso di PAURA che mi aveva presa nell’incrociare i leoni del Palazzo Reale: ho PAURA che non mi diano modo di togliermi le scarpe e di cambiarmi i calzini fradici. Nonostante il bagnato mi sforzo di essere cortese e ricominciamo a camminare. Tutto a Stoccolma è veramente imponente, non capisco se sia il buio a conferirle anche un tono un po’ tetro, o il fatto che per le vie non ci sia anima viva –a parte me, Giulia e quell’uomo da un metro e novanta per uno-, non capisco. Ci perdiamo di nuovo: troppe informazioni, l’ inglese pessimo, le stradine..passiamo un ponte –l’ennesimo- e ci accorgiamo che ha smesso di piovere. Alzo la testa al cielo e rimango basita per le altissime guglie che svettano in sù sù sù. Sono le guglie della Riddarholmskyrkan, una chiesa conventuale fondata per i francescani verso il 1270 da un re di nome Magnus. MAGNUS, ‘grande’, sicuramente ci ha azzeccato, ha reso l’idea della grandezza che probabilmente aveva in mente. Ci giariamo attorno e non finisce più, è tutto chiuso; avrei voluto vedere i vari sarcofagi delle diverse dinastie reali –soprattutto verdi e rossi, dice la mia guida-. Decidiamo che fa freddo, che è ora di prendere in mano la situazione e di dirigersi verso la calda dimora.


È giorno, non piove più, Stoccolma è più serena. C’è anche un po’ di sole, siamo fortunate; in inverno qui piove sempre –anche se è solo ottobre si può decisamente parlare di ‘inverno’-. Stoccolma città d’arte straripa di musei, ve ne sono moltissimi, per tutti i gusti: c’è il National Museum, quello dell’esercito, quello storico, della marina, della telegrafia e della telefonia; a Stoccolma ce n’è per chiunque. Noi decidiamo di darci all’arte e ci dirigiamo, stavolta senza troppi problemi, verso il Moderna Museet, il Museo Nazionale di arte moderna e contemporanea. Dentro vi sono esposti i quadri e le installazioni dei geni che hanno segnato l’arte dell’ultimo secolo: per la pop art c’è Warhol, poi Pollock, Matisse, c’è Fontana il taglia-tele, Klee, Mirò, un Modigliani, Kirchner, Kandinskij, Braque, Mondrian e infine una mirabile esibizione intitolata “He was wrong” che affianca P.Picasso e M. Duchamp. Picasso, che personificò il pittore moderno, e Duchamp, l’ironico indifferente e il grande degli scacchi, che cambiò la pittura e trasformò l’arte in un labirinto di divertimenti intellettuali. Tutto questo talento, la loro creatività, dopo un po’ mi lascia senza parole, non credo si possa parlare di PAURA dell’arte, ma del loro genio un po’ sì. Giriamo per due lunghissime ore tra le stanze del Moderna, sorpassiamo le scolaresche e inciampiamo sui più piccoli seduti per terra e stremati da tutti quei quadri. Usciamo.
Ora tocca al grandissimo parco dello Skansen, ci dovrebbero essere molti animali tipici di questi posti qui; un’amica ci ha detto di una civetta enorme, delle linci e pure delle renne. Ci dirigiamo verso est col timore che faccia buio troppo in fretta; chissà che non ci tocchi passare la notte chiuse là dentro.



Sai che PAURA?!








S.T.

Antonia Pozzi: “Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta…”

Come avrebbe potuto essere letta, capita, interpretata una giovane donna dotata di un’intelligenza e di una sensibilità fuori dal comune nella Milano degli anni ’30?

Antonia Pozzi come poetessa è oggi forse ancora troppo poco conosciuta, proprio lei che in una pagina dei suoi Diari scrive dell’umiliazione e di quanto si era pentita a mostrare i suoi versi al suo professore di estetica, Dino Banfi, dell’Università Statale di Milano. Proprio lei che si era sentita dire da uno degli amici intellettuali banfiani – gruppo nel quale si potevano contare nomi come Vittorio Sereni e Luciano Anceschi – di scrivere “il meno possibile”.

Proprio lei, le cui poesie, pubblicate nel 1939, un anno dopo la morte, ricevettero invece consenso e ammirazione da Eugenio Montale che le dedicò una nota critica nel ‘ 45, sul “Mondo” di Firenze, articolo nel quale le riservò uno spazio specifico nella storia della poesia italiana del Novecento.



Ma ai tempi dell’università una sensibilità come quella di Antonia non poteva non collidere con il solido razionalismo filosofico dei banfiani: “Gli schemi della mia personalità si sono rotti a contatto con le loro personalità forti”, scriveva il 4 febbraio del ’35, “mi hanno fatto molto bene, perché non hanno avuto nessuna pietà. E sono indulgenti solo quando in realtà me lo merito […]”.


È del Natale del 1926, quando Antonia aveva solo quattordici anni, una pagina di diario che ci può far capire quanto questa bambina- ragazza “sentisse” e quanto riuscisse già a comunicare, attraverso la pagina scritta, un’analisi profonda di se stessa, un’ inquietudine esistenziale e una finezza psicologica grandissime:

“E’ passato anche questo Natale. […] giorno dunque di festa, ma, come ogni data singolarmente importante o solenne , giorno di rimpianto per quelli passati. Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina, che dovrei guardare solo all’avvenire, fiduciosa, serena! […] Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, coì anche del tempo che passa resta a noi la traccia […]”.



Questa paura, e non so di che, accompagnerà Antonia nei suoi anni successivi, dall’amore duraturo ma senza futuro e senza sbocco per il professore di liceo, Antonio Maria Cervi, all’ ambiente dell’università, all’ultima lettera inviata ai genitori, il primo dicembre 1938, dove parla della mancanza di un “affetto fermo, costante, fedele”, di un “male dei nervi” che le toglieva “ ogni forza di resistenza”, di una “disperazione mortale” di cui faceva parte “anche la crudele oppressione che si esercita sulle giovinezze sfiorite…”.



È la paura che ha dietro, sullo sfondo, una guerra imminente, ma è soprattutto una paura più privata e personale, una paura che si prova ancora oggi, a cento anni dalla nascita di Antonia, per la troppa vita che si ha nel sangue.



G.D.C



Testi consigliati:
Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di G. Bernabò e O. Dino, luca sossella editore, Bologna, 2010.

giovedì 25 ottobre 2012

Teaser IX° numero "La paura" in uscita il 31 ottobre 2012

IN USCITA IL 31 OTTOBRE 2012

IN USCITA IL NONO NUMERO DE IL PENTAGRAMMA MAGAZINE: "LA PAURA"
COMPLETAMENTE GRATUITO E AUTOPRODOTTO.

...CON LA PARTECIPAZIONE SPECIALE DI GIOVANNI DE AGNOI PER L'ILLUSTRAZIONE
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DURANTE LA SERATA

I Fiammiferi (ex The Matches) | live concert

Bookparty | se non hai paura di comprare un libro, vinci un drink

DJ Seth | non tutto il caos vien per nuocere

Video-installazione di TRIANGLE

dalle 22.00 all'eternità
al Color cafè | [ri]Animatori di Idee


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