Quest’anno festeggi i trent’anni di attività performative, il catalogo –in omaggio con la rivista “Titolo” di Perugia, edita Rubbettino - contiene le tappe del percorso che hai seguito dagli anni ’80 sino ad oggi. Cos’è cambiato nel mondo performativo? Trovi che la gente sia più aperta ad accogliere questa tipologia d’arte oggi o riuscivi a relazionarti, a rivolgerti meglio al pubblico degli anni ‘80-‘90?
È cambiato abbastanza nel mondo dell’arte, negli “addetti ai lavori”; meno nel pubblico “comune”. Il pubblico “dell’arte” è più preparato, per cui si aspetta un po’ più di tutto; mentre, il pubblico “della strada” non sa mai cosa aspettarsi, è meno preparato, più puro. Mi piace di più la relazione col pubblico “della strada”, anche se in certi casi, con dei miei lavori che mirano molto o lavorano sul concetto artistico, mi piace confrontarmi anche col pubblico “artistico” per un chiaro motivo di provocazione.
Tempo fa il pubblico era meno preparato per cui potevi presentare qualsiasi cosa, accettava un po’ di tutto, adesso invece è meno facile che accolga tutto.
Nel capire le tue performances, più che “il gesto”, credo sia fondamentale la “parola”. Sia essa accostata al tuo nome – Campo Minato (2000), Minatom (2001) – o all’azione che viene imitata – Rimpianto (2005), Vago (2000). Credo che l’ironia insita in questi titoli sottolinei ancor di più i problemi che analizzi nelle tue opere.
Questi sono lavori sull’identità, mi è sempre interessato lavorare sull’identità, soprattutto sull’identità dell’artista, quindi sulla mia identità in relazione con il lavoro artistico. È chiaro che ho utilizzato anche il mio cognome perché si presta bene, non solo “Campo Minato” o “Minatom” ma anche “Sono Minato” (performance nella quale indosso delle maglie con scritto “Sono Minato”), “Contaminato”, “Camminato”, si insomma, cerco di lavorare sempre utilizzando un ampio raggio, anche sul mio nome.
Chiaro che è presente un carattere ironico, però non è fine a se stesso. È sempre un’ironia per cercare di capire oltre, cioè, muovere all’ironia un fatto che reputo salutare per l’artista e per il fruitore. Non è soltanto per sorridere o per scherzare, l’ironia serve anche per scavare in modo più profondo all’interno delle cose.
So che sei molto incuriosito dalla scienza e in particolare dagli scienziati “sfortunati”, mi parlavi di una delle tue ultime performances, E=mv2.
Mi interessa la scienza, ma non proprio in maniera specifica, nel senso che non ne capisco tanto, mi piacerebbe capirne di più.
Mi son reso conto, attraverso i miei studi, che c’è una parte di scienziati, chiamiamoli “eretici”, che sono stati emarginati, e questa emarginazione è stata realizzata proprio per contenere l’effetto divulgativo delle loro scoperte; scoperte che avrebbero cambiato le sorti del nostro pianeta. La base su cui ruota il tutto è che gli eretici affermano che siamo immersi nell’energia, mentre la scienza normale si è sviluppata trasformando la materia per ottenere l’energia. Per questo motivo si crea inquinamento, mentre si potrebbe utilizzare l’energia libera, giacché ne siamo immersi: basti pensare al solare, all’eolico; sono tutte energie a nostra disposizione, basta saperle utilizzare.
Oggi la gente è più informata, grazie ad internet, parlare di questi argomenti è meno eretico di un tempo; basterebbe conoscere bene la storia di Nicolas Tesla per capire tutto ciò, personaggio che ha sempre lavorato per l’umanità e mai per il profitto personale, emarginato perché rendeva le sue scoperte troppo disponibili all’umanità intera.
In questa performance ho riesumato delle scoperte fatte già negli anni ‘80, uscite, al tempo, sul giornale di Vicenza e che poi hanno raggiunto la stampa nazionale. Il tutto è depositato nell’archivio della biblioteca di Schio: Olinto De Pretto due anni prima di Einstein, nel 1903, ha formulato una teoria della relatività E=mv2. V sta al posto di c che è la costante della luce, posta invece come variabile: le ultime ricerche stanno dando ragione a De Pretto, anche Zichicchi [Antonio Zichicchi, fisico] un paio di mesi fa ha ammesso che effettivamente la luce non sembra essere costante, timide aperture a questi “eretici”. Io ne ho approfittato per fare questa performance, abbastanza spettacolare che non ha mancato di suscitare polemiche, anche nei giornali.
L’importante è far discutere, è far pensare. Io non voglio mai proporre una verità, propongo sempre delle verità che poi devono essere vagliate dal pubblico: anzi una stessa verità la propongo in modo che diventi più verità, che diventi quasi un paradosso. Siamo abituati ad avere una verità unica: no la verità è sempre in continua mutazione, non c’è mai un qualcosa di sicuro. E questo lo vediamo dalla storia dell’uomo fino adesso, quello che sembrava sicuro un tempo poi è stato smentito.
In Detenzione (2000) ti immedesimi in un detenuto. È una performance nella quale “fai passare il tempo” in attesa della scarcerazione, attesa che diviene appunto essenza della detenzione. Come sei riuscito, e riesci, a gestire i tempi, il ritmo nelle tue performances?
In detenzione, a proposito di tempo, ho sempre sottolineato che ho impiegato un anno e mezzo per recuperare materiali, finché alla fine, stanco, ho buttato via tutto. Mi sono reso conto che se volevo davvero parlare della detenzione, dovevo far affiorare la vera essenza, dovevo offrire l’attesa. La detenzione è un’attesa, non solo attesa della scarcerazione, ma anche attesa di una buona notizia, attesa di una lettera, di un pacco, di un regalo, di una visita, di un qualcosa di diverso che rompa la monotonia della carcerazione. È proprio l’attesa il cardine principale, e io l’ho offerta facendo aspettare il pubblico: mi sono messo a letto con una casacca che mi individuava come carcerato e li mi giravo, allora la gente pensava “adesso succede qualcosa”, accendevo la luce dell’abat-jour, la spegnevo, e intanto il tempo passava. E la gente è rimasta lì a guardarmi per più di mezz’ora.
Con questi piccoli accorgimenti riesco a mantenere vivo l’interesse, a tenere un ritmo alto nelle performances. Ho cominciato la performance, adagiato a letto, con la consapevolezza che ci sarebbe stata della gente che se ne sarebbe andata.
Il trucco è quello che oltre al misero letto spoglio c’era anche un comodino e un abat-jour, questo mi dà la possibilità, quando il pubblico è ormai stanco di offrire un’opportunità di stare li, attiro l’attenzione, piccole sciocchezze minime, che servono ad arrivare ad una durata di almeno una mezz’ora. Chiaro che mi metto nell’ottica del pubblico, penso come loro, immagino cosa può succedere. Nel finale di questa performance mi alzo e vado a dare la mano al pubblico.
In un'altra performance, “Acqua in bocca”, ho utilizzato questa modalità. In un contesto un po’ particolare, all’inaugurazione di una mia personale in Serbia, dopo che ha parlato la direttrice, mi vien data la parola. Era anche presente la televisione serba: arriva l’intervistatrice che mi dà la parola e io faccio finta di parlare, mi fermo, boccheggio, ci penso, faccio per parlare; insomma un lavoro sull’esitazione ma non pronuncio una parola. Alla fine m’inchino e l’interprete spiega che ho eseguito una performance.
Anche qui ho utilizzato l’espediente dell’attesa, ma non ho abusato, ho tenuto l’attenzione il giusto, 2-3 minuti. Anche questa ha avuto il suo effetto: spiazzamento, la gente non sapeva più cosa pensare, tutti pensavano che fosse successo qualcosa, che mi stessi sentendo male. Ecco che il pubblico s’imbarazza.
In tutte le mie performance c’è un lavoro sul tempo, anche il tempo di silenzio tra una parola e un’altra, lo medito, me lo organizzo, me lo pre-imposto. Dire tutto di fila oppure lentamente, questo può cambiare l’effetto, il significato della frase.
Arriviamo al punto. Sono rimasto molto colpito da una delle tue ultime mostre personali, Ecco il Punto! (2003), allo spazio espositivo “Liba Arte Contemporanea” a Pontedera, Pisa. Ho in mano il catalogo, parte integrante dell’esposizione se non sbaglio, quali altre opere erano presenti? Qual è stato il tuo intento nel crearle?
In questa mostra il punto è visto sul piano ironico da vari punti di vista: ho preso in esame 10 punti.
Faccio una carrellata: uno era il catalogo, tutta la catasta di cataloghi, un altro modo di vedere i punti, i punti della spesa, da catalogo, da collezione. Un altro era “Punto fisso”: un punto disegnato sul muro con la matita. Un'altra opera era “Punto e a capo”: ho preso il libro di Angela Vettese “Capire l’arte contemporanea” e l’ho cancellato tutto con il bianchetto lasciando fuori solo i punti. Un'altra ancora s’intitolava “Due punti”: un libro con due fori alla stessa distanza delle mie pupille in modo che quando è aperto si instaura un rapporto di parallelismo ipotetico con i miei occhi. “Far punto”: un cilindro riempito di acqua al centro della galleria dove ci si poteva specchiare, ecco che emerge il concetto di narciso che fa il punto sulla sua situazione estetica.
Dieci punti diversi sul punto. Ho fatto anche la performance: leggevo il mio testo all’interno del catalogo.
Quanti punti dai alla nostra rivista, il pentagramma?
[ride] mi piace quest’idea di collaborazione tra di voi, iniziare a fare qualcosa, lo vedo come un esercizio di stile il vostro, lo fate per piacere, e per fare qualcosa per la cultura e nella cultura. Tutte le esperienze vanno a riempire il contenitore che è la nostra persona e alla fine tutte le esperienze rimangono come quantità ma soprattutto come qualità: continuate così!
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