Nel dover recensire l’ultimo film di Woody Allen, Midnight in Paris, sono quantomeno combattuta tra approvazione e censura ad una creazione che ai miei occhi talvolta appare ridondante e scontata.
Il monologo in apertura rende di facile individuazione la mano del regista che si lascia andare fin da subito ad una dichiarazione d’amore nei confronti della città in cui è ambientata la storia, Parigi.
Gil, protagonista del film, è sempre stato sceneggiatore, ma di recente si è concesso un tentativo per emergere come scrittore. Egli è fidanzato con Ines; insieme si trovano a Parigi per una breve vacanza da vivere alle spese del padre di lei, borghese e repubblicano. Gil non sembra piacere molto ai genitori di Ines che non appoggiano né la proposta di trasferirsi a vivere nella capitale francese né la nuova carriera da lui intrapresa che al momento lo connota solo come uno scrittore fallito incapace di far leggere ciò che scrive. È chiaro fin dal principio che la coppia Ines - Gil manca di chimica: lui ama la pioggia e in particolare Parigi sotto la pioggia, lei non concepisce l’idea di dover uscire col bagnato, lui sembra prendere le parti della servitù: ‘ecco perché papà dice che sei un comunista!’ mentre lei è disposta a spendere una cifra ruotante attorno ai 20.000 dollari per una sedia -nonostante non abbiano ancora una casa e divergano sul continente in cui vivere- e lamenta la collana in pietra lunare da lui regalatale, perché ‘se è cheap è cheap!’. Dopo la degustazione di vini condotta in compagnia dei suoceri e di una coppia di amici di Ines Gil, lasciato solo dalla fidanzata, inizia a vagabondare per le vie di Parigi e, ancora inebriato dal vino, vi si perde. Al rintocco della mezzanotte si trova seduto sugli scalini di una chiesa ed è in quell’istante che passa di là una macchina d’epoca i cui passeggeri lo invitano a unirsi a loro.
Gil diviene una sorta di Cenerentola del 2011 e da questo momento in poi, per il nostro protagonista, hanno inizio una serie di fortunosi incontri che lo porteranno a vedere e conoscere alcuni dei più famosi scrittori, artisti e musicisti del primo Novecento: Hemingway, Scott e Zelda Fitzgerald, Picasso. Il film si infittisce così di personaggi che si presentano a Gil con una tale velocità da lasciare però perplessi. Talvolta, infatti, di tali grandi del passato non resta altro che un viso, impresso nella mente dello spettatore per una battuta più o meno simpatica quale ‘io ci vedo un rinoceronte!’ del grande Dalì. Inoltre nomi e citazioni si accavallano l’un l’altro tanto da risultare di difficile apprezzamento a chi manchi di una cultura artistica, cinematografica e letteraria.
Arrivato una sera a casa di Gertrude Stein a Gil viene data la possibilità di portarle il manoscritto del suo romanzo per averne un parere. È lì che conosce Adriana, la Adriana che fu amante di Modigliani prima, di Picasso poi. Il giorno seguente Gil tenta di condurre anche la propria compagna a conoscere i suoi miti, ma i due arrivano troppo presto e Ines, infastidita, se ne torna in albergo sottolineando la stranezza del suo comportamento e il ‘penserei che hai un tumore al cervello’. L’unica infatti a non dare troppo peso al comportamento di Gil è proprio la fidanzata che, anzi, ne approfitta per uscire tutte le sere con l’amico americano. Avendo preso una cotta per Adriana, Gil sale su una carrozza e la segue nel mondo da lei vagheggiato: la Belle Époque di Parigi. Lì emergono altri personaggi, altri nomi quali Lautrec, Degas, Gauguin e Gil, trovandosi costretto a scegliere tra quella realtà e quella del 2000, decide di dividersi dall’innamorata per tornare al suo mondo e lasciare definitivamente una fidanzata che forse non ama e con la quale non va sicuramente d’accordo. Nel finale, scontato e prevedibile, la pioggia che inizialmente era stata oggetto di dissenso tra i due fidanzati sembra ora unire Gil e Gabriella, la dolce bionda parigina venditrice di vinili conosciuta grazie alla musica di Cole Porter.
Secondo la definizione data dall’amico pedante di Ines, Gil è inizialmente affetto dalla ‘sindrome da epoca d’oro’: infatti anche nel libro che è intento a scrivere egli si propone di raccontare la storia di un ‘negozio nostalgia’, un negozio in cui si vendono oggetti del passato, cose vecchie. Questa sua attitudine a voler rivivere e rievocare il passato, la cui epoca d’oro viene da lui individuata negli anni ’20, lo porta ad esaltare la fuga e il sogno ad occhi aperti, a vagheggiare un’altra esistenza diversa dalla sua. Sarà proprio questo forte desiderio a trasportarlo in un’altra dimensione che, però, si rivelerà fonte del disincanto: Gil si rende conto che un confronto col presente è necessario, che non basta fuggire e che, come lui, anche i grandi del passato avrebbero voluto vivere in un’altra epoca quale la Belle Époque o la Renaissance.
In termini di ricerca di nuovi luoghi in cui vivere, è stato fatto un parallelo con un episodio dell’opera di Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, in cui il casellante sostiene come nessuno sia mai realmente contento del luogo in cui si trova a vivere.
Nel complesso, a mio parere, l’idea che soggiace a Midnight in Paris è originale e diversa dagli altri film alleniani, ma penso che l’escamotage del battito dell’orologio a mezzanotte manchi di consistenza narrativa, che sia illogico e ripetitivo. Non bisogna inoltre lasciar correre la superficialità dell’elevato numero di incontri capitati a Gil, che potrebbero dire molto, ma che si concludono con un senso di vuoto. Forse la simpatia e l’ammirazione spesso provati nei confronti del regista annebbia quella che è la realtà di questo film che, in fin dei conti, forse dovrebbe colpire più per la fotografia e l’ambientazione parigina che per la storia in sé.
S.T.
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