cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

venerdì 25 ottobre 2013

Come un caffè

Un soffio di vento.
Il dondolio della sedia.
Le mie pieghe.
Ho sete.
Liquirizia,aroma dolce…
Un sorriso gelato.
I tuoi passi...
La bambina che corre,
Le gote rosse.
Le mani sotto il cappotto.

La vita è un attimo.
Sì,un soffio…
Aroma dolce...
I mandarini profumati
E pieni di semi…
Un bacio in silenzio
Che fonde la liquirizia...
Parole sussurrate
Nel vento.
La vita è un Canto.

Ti sfioro.
E sono foglia ed erba…
Calore,amore…
Poi neve,acqua,vapore…
Tu che nasci e che muori,
tra le mie pieghe,
e mi spettini
i riccioli
d’ombra…
Come un soffio di vento.

Tante strade e noi nel mezzo.
Come un caffè,
Né dolce, né amaro…
Da bere bollente.

La vita è un attimo…




E.E.A.



martedì 22 ottobre 2013

Castanhas em Lisboa


Sembra impossibile ma pure a Lisbona cucinano le castagne.
Scendendo alla stazione Cais do Sodrè, poco distante, si trovano dei chioschetti a forma di trenino che offrono castagne ai passanti. Sabato, per la prima volta da quando sono qui, sono incappato in uno di questi curiosi baracchini.


Chiaramente, da buon amante della castagna, non c'ho pensato due volte a prenderne un cestino. 
C'è da precisare che sabato, qui, la temperatura ha toccato i 22° C e c'era il sole. Un sole estivo, da maniche corte. 
C'è da precisare pure che qui - per chi non lo sapesse - c'è pure il mare. No, l'oceano.
Ho mangiato le castagne seduto in riva al mare con una t-shirt estiva e gli occhiali da sole.
Devo dire che per un istante mi sono sentito a disagio; abituato all'ottobre nebbioso, scuro e freddissimo della pianura padana, durante il quale si scaldano le castagne nel forno o nel caminetto; ma la gente sembrava non curarsene.

Il nostro autunno è diverso, ricordo che da piccini in questo periodo si andava in collina a cogliere le castagne, "con i guanti mi raccomando che non voglio passare tutta la sera poi a toglierti aghi dalla mano, e vestiti, metti la sciarpa che fuori si gela".
Poi si tornava la sera, si faceva il taglio alla castagna ("sennò in forno esplodono!!") e si infornavano. Aspettando, si cominciava a scaldare il vino per fare il vin brulè - per i più oziosi c'era pure il preparato- e si stava tutti spalmati di fronte al forno a bocca aperta, aspettando che le castagne si cucinassero.
E non dimentichiamoci che, arrivati ad una certa età, la festa che andava (e va pure ora!) per la maggiore è la famigerata "Festa del Maron" di Val Rovina, famosissima in tutto il comprensorio per le gustosissime castagne gigantesche (ma pure per il vino rosso "labbra-rosse").

Seduto nel lungo mare (che in realtà è la riva-foce del Rio Tejo) mi sono tornate alla mente queste immagini e quando sono svanite, con loro è passata pure la fame. 
Ahi ahi que saudade!!

Poco male, le castagne erano tutte bruciacchiate fuori e scotte dentro.

A.L.

sabato 27 luglio 2013

Secret Window

Il pezzo di vetro nascosto dentro di noi

« L’unica cosa che conta è il finale; la cosa più importante della storia è il finale, e questo funziona a meraviglia, anzi è perfetto. »

Secret Window è un racconto di Stephen King che fa parte della raccolta “4 dopo mezzanotte”, pubblicato nel 1990. Nel 2004 è diventato film diretto da David Koepp e interpretato magistralmente da Johhny Depp.
Mort Reiney è uno scrittore.
In procinto di divorziare dalla moglie, è costretto a vivere nella casa isolata in montagna nella quale passava le estati con la consorte. In condizioni pietose, lascia le giornate passare dormendo, in attesa di un’ispirazione per il suo prossimo romanzo. 

“Spense il computer, ricordandosi, solo un attimo dopo aver abbassato l’interruttore, che non aveva salvato il testo. Oh, be’, pazienza. Forse era stato il critico che aveva nell’inconscio a dirgli che non valeva la pena salvarlo.”

Un giorno gli si presenta a casa un tale con un cappello nero (John Turturro nel film) il quale afferma di avere un manoscritto di sua stesura e accusa Mort di plagio. Inizialmente stizzito lo scrittore sbatte la porta in faccia al tale etichettandolo come “esponente della congrega della Rotella Mancante”.
Scritto in un periodo nel quale anche il celebre scrittore era stato accusato di plagio rispetto a “Mysery” la storia diviene ancora più avvincente, quasi ironica.
L’accusatore non demorde. La vita di Mort si trasforma presto in un inferno, i problemi con la moglie - la quale intende far firmare le scartoffie per il divorzio all’ex marito - si ingigantiscono sempre più, e il tale col cappello nero, John Shooter, sembra non dargli tregua.
Spaventato, lo scrittore, minaccia il tale di avvisare la polizia qualora non gli fosse data tregua, ma Shooter di rimando, con tutta la calma che gli è concessa gli risponde:
«Questa faccenda è tra me e lei»,
«Non abbiamo bisogno di nessuno, signor Rainey, è strettamente fra lei e me.»


Col proseguire del racconto, prima il cane (nel racconto il gatto) viene trovato morto davanti casa, poi la casa della ex moglie viene data alle fiamme e infine lo sceriffo della contea, amico di Mort, muore misteriosamente.

“Che cos’era Shooter?
Gli venne in mente la parola «fantasma».
Gli venne in mente anche la parola «illusione». “



Forse il film perde un po’ di smalto verso il finale (assolutamente da non spifferare ad anima vivente che non l’ha ancora visto!) rispetto al “copione” originale di King. Grandiosa come sempre l’accoppiata Depp, nel ruolo del “bello e maledetto”, - Turturro, bovaro pacato ma svitato.
Favolosa e degna di nota la colonna sonora di Philip Glass che rende il thriller una pellicola avvincente, a tratti spassosa, nella quale ognuno di noi si può riconoscere e può scoprire quel lato nascosto dietro il vetro, la finestra segreta, insita in noi.




A.L.



Da guardare: Secret Window di David Koepp (2004)
Da leggere: 4 dopo mezzanotte di Stephen King (1990)
Da ascoltare: Philip Glass Secret Window O.S.T. (2004)

Il trasparente enigma

Del diritto all’opacitàQuale voce a noi giunge con il suono delle onde
che non è la voce del mare?
È la voce di uno che a noi parla
ma che, se ascoltiamo, tace,
perché noi abbiamo ascoltato

F. Pessoa, Le isole fortunate

Da sempre, nella riflessione filosofica come nel linguaggio comune – con debiti reciproci tra i due ambiti – la grammatica dell’in/visibile è l’orizzonte in cui si costruiscono le metafore per raccontare i modi buoni e cattivi di esercitare il potere. Il Palazzo di Vetro che ospita il Segretariato delle Nazioni Unite a New York e la politica della trasparenza (glasnost) con la quale Gorbačëv volle provare un estremo tentativo di riforma dell’agonizzante gigante sovietico sono solo due dei recenti eredi dell’ossessione della politica per il proprio carattere pubblico, ultimi figliocci del racconto mitico che Platone tramanda nel Libro II della Repubblica. Il bovaro Gige, dopo un terremoto, spinto da curiosità entra in una voragine apertasi nel terreno; trova il cadavere di un soldato che ha al dito un bellissimo anello d’oro; Gige se ne impossessa e scopre ben presto che quell’anello dona il potere dell’invisibilità. Approfittando di tale potere, il bovaro seduce la moglie del re e uccide quest’ultimo, prendendone il posto. Glaucone, il personaggio del dialogo cui Platone mette in bocca il mito, ne trae la morale che nessuno è talmente virtuoso da non approfittare dell’invisibilità per commettere azioni ingiuste a proprio vantaggio; di più: “giusto” e “ingiusto” sono convenzioni sociali, che si reggono sul controllo che la società stessa esercita sui propri membri e sulla consapevolezza di questi ultimi di essere controllati.
È precisamente entro tale orizzonte concettuale che Norberto Bobbio, nel 1984, svolge alcune considerazioni sugli insuccessi della democrazia. A suo avviso, il più grave e meno considerato di essi sarebbe legato precisamente al tema del potere invisibile, che in Italia era terribilmente all’ordine del giorno per la lunga serie di attentati che dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 avevano insanguinato il Paese. Bobbio ci ricorda che i discorsi, vecchi e nuovi, sulla democrazia, vedono in essa il governo del potere visibile, o del potere pubblico in pubblico, per cui la pubblicità sarebbe la regola ed il segreto l’eccezione. Del resto, la democrazia di cui parla Bobbio e di cui siamo cittadini è basata sulla logica della rappresentanza: rappresentare significa rendere visibile, rendere presente qualcuno o qualcosa che è assente; secondo tale logica i rappresentanti del popolo, i parlamentari, “mettono in scena” i cittadini che li hanno eletti, con le loro esigenze e le loro aspirazioni. Lasciando il ragionamento di Bobbio, aggiungiamo che la rappresentanza è parente stretto della rappresentazione, per cui il “carattere finzionale” della politica democratica apre inevitabilmente lo spazio ad una zona opaca, che nei casi peggiori – quando, cioè, se ne faccia un uso intenzionalmente dispotico – diventa oscura. Tale opacità sembra essere un carattere distintivo di ogni relazione asimmetrica, compresa quella particolare forma di asimmetria che è il potere. La democrazia e la logica della rappresentanza costruiscono il popolo che ne dovrebbe costituire presupposto e ragion d’essere; facendo ciò, proiettano i limiti individuali in una potenza comune, ma vincolano tale potenza a meccanismi che gli individui non possono conoscere, pena il collassare del sistema stesso. Le giuste preoccupazioni di Bobbio sulla deriva autoritaria che ogni democrazia cova al proprio interno vanno allora affrontate con la capacità di analisi del politologo e la passione del militante, che devono porre un freno agli interessi delle lobby, togliendo terreno da sotto i piedi a possibili poteri occulti; devono però essere lette anche con la sensibilità del poeta, che avverte l’ineludibilità dell’opaco ed il pericoloso carattere consolatorio della metafora del vetro.


Scrive Ludwig Wittgenstein che «di un uomo diciamo che ci è trasparente. Ma per questa considerazione è importante che un uomo possa essere un completo enigma per un altro uomo.» Trasparenza e opacità sono entrambe – spesso, insieme – caratteri della nostra esperienza degli altri e del mondo: possiamo riconoscere la trasparenza di un gesto, di un sentimento, di un discorso proprio perché sappiamo farci un’idea di cosa significherebbe percepirne l’opacità – e viceversa. Ecco allora che, ogniqualvolta singoli individui o movimenti collettivi chiedano a gran voce maggiore trasparenza, come se questa fosse di per sé la soluzione dei nostri problemi, dobbiamo ricordare l’importanza dell’opacità, che è il primo modo di darsi dell’altro a noi e di noi stessi all’altro: una zona d’ombra che non solo ci difende dall’essere totalmente dischiusi al mondo, ma soprattutto costituisce la condizione per un percorso di conoscenza, di condivisione che non schiacci alcuno dei soggetti coinvolti. Tra i pochi che abbiano colto con radicalità questo aspetto della relazione col Diverso, si distingue il poeta, filosofo e scrittore martinicano Édouard Glissant, teorico della creolizzazione. Nella sua Poetica della Relazione torna con insistenza sul “diritto all’opacità”, nella quale egli vede non necessariamente l’oscurità – che pure è implicata da e in ogni relazione – ma «il non riducibile, che è la più vivace delle garanzie di partecipazione e di confluenza. Eccoci lontano dalle opacità del Mito o del Tragico, la cui oscurità provocava esclusione, e la cui trasparenza tendeva a “comprendere”». La metafora della trasparenza va abbandonata, perché «[e]sistono ancora centri di dominio, ma è evidente che non esistono più luoghi privilegiati ed esclusivi del sapere, metropoli della conoscenza. […] La trasparenza non appare più come il fondo dello specchio in cui l’umanità occidentale rifletteva il mondo a sua immagine; in fondo allo specchio c’è ora opacità, tutto un limo depositato dai popoli, limo fertile ma, a dire il vero, incerto, inesplorato, ancor oggi molto spesso negato o offuscato, di cui non possiamo non vivere la presenza insistente.»
Oggi che siamo portati a vedere la democrazia come orizzonte del bene, come unica alternativa alla tirannia – e quindi comprendiamo i suoi punti oscuri come errori contingenti, da superare e superabili una volta per tutti – le parole del poeta creolo ci richiamano al compito inesauribile di trovare il giusto nell’impasto di luce e buio, di trasparenza ed opacità che ognuno di noi è, in qualunque regime politico. La giustizia, forse, è nello sguardo che sappia riconoscere l’in/visibile.

M.P.





Da leggere    N. Bobbio, Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco,Einaudi, Torino 1984
É. Glissant, Poétique de la Relation. Poétique III, Éditions Gallimard, Paris 1990 (tr. it. di E. Restori, Poetica della Relazione. Poetica III, Quodlibet, Macerata 2007)

A teatro        Ailuros Teatro delle nebbie, Insanocorpore (studio), di N. Cecconi e B. Riebolge, con A. Dal Bello e F. Mazzocco

Philip Glass

Il suono del vetro

“Io scrivo per un pubblico ideale, e per me il pubblico ideale è quello che vuole ascoltare sempre qualcosa di nuovo”.
Il primo concerto della “nuova” musica di Philip Glass fu presentato una sera del 1968.
Alla Jonas Mekas’s Film-Makers Cinematheque Glass propone un omaggio a Erik Satie per due flauti e una composizione per violino. Gli spartiti sono appesi alle pareti della sala, di modo che gli strumentisti vengono costretti a muoversi tra il pubblico a formare una sorta di piece drammaturgica.
Inizio degli anni ’60: finiti gli studi di composizione, Glass oltre a cominciare a scrivere musica propria -di forte impronta minimalista- lavora come tassista e gestisce un’azienda di traslochi. Sarà da questa esperienza che, assieme allo storico amico di studi Steve Reich, il compositore formerà un gruppo che comincia ad esibirsi nei principali musei e gallerie d’arte.

L’infanzia passata tra i dischi di musica contemporanea del negozio del padre lo portano dapprima a studiare flauto per poi dedicarsi al college alla matematica e alla filosofia e infine riprendere gli studi di composizione. Trasferitosi a Parigi per continuare gli studi viene a contatto con le avanguardie musicale del tempo, Boulez, Cage, Feldman ma rimane fortemente colpito dagli spettacoli di Goddard e Truffaut musicati da Barrault.
Tornato da un periodo “meditativo” in India nel 1966 –durante il quale incontra il Dalai Lama e si converte alla religione buddhista- comincia a lavorare a stretto contatto con Ravi Shankar, rinnegando le composizioni del periodo precedente. Basandosi sulle proprietà ipnotiche dettate dai ritmi compulsivi e minimalisti indiani, Glass crea il proprio stile personale.
Tutto questo sfocia infine in Glassworks, album del 1981, tentativo del compositore di fare avvicinare con brani più corti e accessibili un pubblico più variegato e “generale”. Spogliatosi delle complessità compositive del passato Glassworks è una “bottiglia di vetro al cui interno è stato posizionato un veliero”, all’ascolto le emozioni e i sentimenti si susseguono senza troppe difficoltà. È come se Glass dopo anni di studio compositivo si fosse reso conto che nella semplicità dei pezzi sta il vero potere della musica. Un minimalismo esasperato. Flauto, Clarinetto, Corno, Violoncello, Viola e Sintetizzatore. Musica da camera? O da “walkman”?
Per quanto mi riguarda; Island, terzo dei sei movimenti che compongono il lavoro, dà perfettamente l’idea del disperato e ben riuscito tentativo di Glass nel rendere partecipe l’ascoltatore. L’input iniziale ci è dato, sta a noi continuare a far viaggiare la mente nell’isola eterea che è creata dagli archi, dal flauto che ci fa volare sopra le nuvole, tra le fronde degli alberi fino alla vetta più alta. Il lavoro dunque non è chiuso in sé stesso, ognuno ci dà la propria interpretazione, le proprie sfumature, è un lavoro intimo, personalissimo di ogni uditore.


Glass durante la sua carriera ha lavorato anche ad alcune colonne sonore tra le quali The Hours (S. Daldry 2002), L’illusionista (N. Burger 2006) e ha collezionato l’oscar come miglior colonna sonora per Diario di uno scandalo (R. Eyre 2007).
Ha collaborato anche con artisti del calibro di Brian Eno, Devid Bowie (del quale ha riadattato i temi di “Heroes” per comporre l’omonima sinfonia), Paul Simon, Suzanne Vega e Aphex Twin.
La potenza della musica del compositore sta nella soggettività. È quindi frutto di una impostazione totalmente intimista: il mio Glass non è il tuo Glass o il suo Glass. Il mio Glass né giusto, né sbagliato, né conclusivo, né inutile.
Il mio personale Glass.
A.L.


Da ascoltare: Philip Glass, Glassworks (1982)

Il tradimento del vetro

“Siamo rattristati dalla cultura del mattone; il vetro porta con sé una nuova epoca; la luce vuole il cristallo; il vetro colorato elimina l’odio; senza un palazzo di vetro la vita diventa un peso.”
(Paul Scheerbart)




Sono passati cento anni da questa frase e possiamo dire che il vetro si è certamente affermato come uno dei protagonisti, se non il protagonista indiscusso, dei processi di trasformazione che hanno cambiato il volto di molte città contemporanee. Un materiale ormai imposto nel linguaggio architettonico contemporaneo. Ma sono forse per questo le nostre città migliori di quanto non lo fossero in passato?
Certamente negli ultimi anni che hanno visto l’impiego del vetro in architettura, raramente si è manifestato un vero rinnovamento e un’affermazione dei valori collettivi e democratici, che connotava il programma culturale delle avanguardie d’inizio novecento.
Nonostante questo, nelle più recenti realizzazioni, sia a livello urbano che privato, il vetro è stato ’attore principale di una rappresentazione nella quale l’esibizionismo tecnico ha con arroganza superato la funzione sociale dell’architettura.

 

Ma non è solo un fatto di aggressività: oggi le tecnologie degli involucri vetrati presentano livelli prestazionali di tutto rispetto e sempre maggiore è la capacità di adattamento della tecnica alle esigenze contestuali. Pertanto il rischio di un’omologazione non è da attribuire certamente all’industria.
La vera causa dell’insoddisfazione nei confronti di molte architetture di vetro contemporanee devono essere piuttosto ricercate nel sempre più profondo divario tra forma e funzione, e dall’irresponsabile indifferenza dei progettisti nei confronti del luogo, giustificata da un bisogno di efficienza energetica, con scelte che non hanno nulla a che vedere con
quest’ultima.
Il vetro dunque ha tradito l’architettura due volte: la prima è nei confronti delle città (vedi “The Shard”, l’ultimo grattacielo di Renzo Piano a Londra). In queste architetture è difficile riconoscere la trasparenza, il rigore, la sobrietà nei confronti del contesto che dal vetro ci si sarebbe aspettato.
Il secondo tradimento del vetro è quello che la sua architettura esprime: un’autocelebrazione camuffata in progettualità (vedi Fuksaas, dove i poveri dipendenti della Nardini dentro le sue “bolle” di vetro si cucinano in piena estate!). Una filosofia troppo lontana da quell’impegno civile che caratterizzava il pensiero delle avanguardie del Novecento, che nel vetro avevano riconosciuto una grande opportunità.


M.B.

I vetri di Murakami

Norwegian Wood, la canzone dei Beatles, è la preferita da Naoko e il titolo del “romanzo d’amore non troppo sentimentale della lunghezza di circa trecentocinquanta pagine” scritto da Haruki Murakami e pubblicato nel 1987 (nel 1993 in Italia). Ho scelto di scrivere su Norwegian Wood, abbandonando il buon proposito di dedicarmi a Tennessee Williams (che pure è citato nel romanzo...) e alla sua opera teatrale Lo zoo di vetro, semplicemente perché è riuscito a “prendermi”, a tenermi sveglia e farsi leggere con grande rapidità. Questo è uno di quei pochi romanzi che si lascia divorare e che divora il lettore fino all’ultima facciata, che lo porta a parlarne in continuazione, a cercare un angolo nascosto in cui sedersi, al riparo da tutti, per leggereleggereleggere; è uno di quei libri che fa venire voglia di pistacchi quando i suoi personaggi mangiano pistacchi, di alcool quando si ubriacano, di sigarette quando fumano; è uno di quei libri che fa pensare e che si consiglia, perché è triste, perché fa ridere, perché è un libro di morti, ma anche di amori e amicizie. 



Non sarà mia intenzione svelare toppo la trama di questo romanzo, per evitare di togliere la sorpresa e la brama di lettura che derivano dal mangiarne una pagina dopo l’altra. Norwegian Wood è un lungo flashback narrato in prima persona dal protagonista trentasettenne Watanabe, un lungo flashback che torna indietro di diciotto anni per raccontare quel periodo della sua la storia che ne segnò l’esistenza: “Pensavo solo a me stesso, alla ragazza così bella che camminava al mio fianco, alla nostra storia, e poi ancora a me. Era un’età in cui qualunque cosa potessi vedere, sentire, pensare, mi tornava sempre nelle mani come un boomerang. Per giunta ero innamorato, e quell’amore mi aveva portato in una situazione terribilmente complicata.” In breve questo è ciò che racconta Norwegian Wood, ma ciò che lo rende ancora più speciale, al di là della storia in sé, sono i suoi personaggi; tutto il libro si popola di personaggi meravigliosamente caratterizzati: dalla dolce Reiko, la controllatrice e mancata concertista, al gentiluomo Nagasawa “la persona più strana che abbia mai incontrato nella mia vita”; da Kizuki, l’amico perso, il motore di tutto, al malinconico e solo protagonista Watanabe, diviso nell’affetto per due ragazze, ma sempre innamorato; da Naoko, fragile e triste, ossessionata dai ricordi e dalla paura di essere dimenticata, a Midori, divertente e pazza. Midori, la mia preferita, Midori che -ubriaca- si addormenta sul water e che tutte le volte, dopo aver bevuto un bicchiere di troppo, vuole arrampicarsi su un albero. Midori che scherza sulla storia di un ipotetico padre fuggito in Uruguay, che cerca nell’ amore qualcosa di assolutamente perfetto, qualcosa che per una volta le “permetta di fare i capricci”. Midori un po’ pervertita che vuole andare a vedere un film porno e che fa sempre domande troppo imbarazzanti a Watanabe; Midori che -ad un certo punto della sua vita- decide di ignorare ciò che non capisce, come seno e coseno, o come le teorie di Marx; in realtà, Midori, l’unica vera testa pensante, colei che viene trattata come un’idiota per le sue domande e colei che di conseguenza diviene sarcastica, che sembra guardare dall’alto i suoi coetanei, “una massa di mistificatori” che “si compiacciono di usare paroloni difficili a effetto per suscitare l’ammirazione delle ragazze appena entrate all’università, e in realtà pensano solo a infilare le mani sotto alle gonne”. Tutti questi personaggi, e tutti gli altri che riempiono i fogli di Norwegian Wood, sono come il vetro. Possono essere spessi o sottili, ma sono fragili: alcuni più, altri meno; talvolta si rompono, talvolta resistono, ma sono sempre estremamente trasparenti nell’immagine che riflettono di sé: “Noi siamo tutti esseri imperfetti che vivono in un mondo imperfetto. Non viviamo misurando le distanze con la riga, gli angoli col goniometro e controllando entrate e uscite come sul conto in banca. O no?” 




 S.T. 



Da leggere: “Norwegian Wood” Haruki Murakami 
Da vedere: “Norwegian Wood”, 2010, diretto da Tran Anh Hung 
Da ascoltare: “Norwegian wood”, dall’ album “Rubber Soul”, 1965

venerdì 26 luglio 2013

Incredibilmente leggera

Incredibilmente leggera, veloce, sensibile e vivace. Descrivere con estrema precisione l’amosfera che regna in una serata tipica di una città del nord Italia non lascia spazio al tempo di pensare profondamente alla particolarità di ogni movimento. Qui tutto ha fretta di spostarsi, di cambiare forma, di alleggerire il carico informativo delle sue dimensioni per trasformarsi il più velocemente possibile in qualcos’altro che sfugge ancora che se ne va successivamente altrove, mascherato da qualcos’altro.
Un dubbio, una domanda, un affermazione sospetta, può darsi anche si tratti semplicemente di una speculazione che non porta ad alcuna conclusione pratica, concreta o effettiva e vera. Possiamo definire ogni singolo atto che ci porta ad incuriosirci, come un semplice spreco di tempo. In questo posto pensare prima di agire diventa un’azione che porta alla stasi. Non esiste il valore che la propria capacità riflessiva aggiunge alla fisica di ogni movimento meccanico del nostro corpo, sia anche solo quello di un semplice sospiro di fronte ad un balcone al quale ogni Giulietta s’è affacciata per rispondere al proprio Romeo. Sembra non essere presente l’acuta dialettica di un “Mercante Veneziano” nel mercato di questo paese, qui tutto luccica maggiormente quando è rispolverato per più di una volta. Qui risiedono molte immagini vetuste. Necessita di un acuto lavoro d’analisi storica ogni ente e per gli oggetti concordo con chiunque afferma che in Italia il lavoro dell’archeologo è comune a tutti gli abitanti. Tutto ritorna, tutto si ripete, ma nonostante la disposizione non cambi, tutto è sempre diverso. Stupirsi di ciò che è ovvio, non sempre è sciocco, è semplicemente reale. In questo luogo l’agire stesso è un composto di tutta l’espressione individuale e collettiva di un individuo. Non esiste un sistema ordinato e consequenziale, non c’è una calssificazione standard. Posso ricondurre l’insieme di comportamenti ad un modello sociale, ma di per se non esiste un modello sociale comune anche tra gli individui di uno stesso e legittimo gruppo di persone appartenenti alla stessa classe sociale. Si capisce chiaramente che non vi alcun tipo di studio generale, tutto è concentrato sull’istante singolo, così come tutto è soggettivo, anche se molto spesso, si intende come soggettivo ciò che è relativo, in questa strana parte del pianeta. Dimentico volentieri che ogni azione relativa necessita di un dato costante o un indice generale ed oggettivo di relazione, meglio dimenticare questi sofismi matematici e disici per vivere in pace qui. Direbbe un qualsiasi giocatore Pascaliano: ”conviene fingere di non sapere onde mervaigliarsi del proprio conto, piuttosto che concludere e rimanere con l’amaro in bocca”. Da come si muovono le persone ed agiscono i loro più libidici sentimenti nei confronti di “Bacco, Tabacco e Venere” non appare evidente fin da subito il peso che Roma e le sue alte torri campanarie ha sulla cultura dell’individuo medio. Solo entrando nella reverenza di una famiglia locale, posso rimanere spesso interdetto da come morale ed uso comune spesso, qui, non coincidano. Un’estrema improvvisazione verso l’inaspettato. Così crescono le persone, così si colora il tempo del giorno e si incupisce la sera, tingendo la tela con  colori nettamente più “Crepuscolari”. Per ogni luogo esiste un verde, qui quello più scuro appartiene alle bottiglie che contegono il vino. Mentre il giallo colora i boccali di birra dello stesso splendore d’un raggio solare. Il miele diventa nettare alcolico. Il platino il riflesso della luce in un calice di vino bianco. Ombra di verità ombra di saggezza, ombra d’amore ombra di solitudine e dolce sconforto. Ogni ombra traccia la sagoma di qualcosa, ogni ombra contiene l’essenza di una storia. L’ombra di una bottiglia che contiene un vino passito d’uve rosse della ValPollicella, sembra racchiudere l’essenza di tutte le belle giornate che il colle su cui era posto il vigneto, ancora immaturo per la raccolta , ha poi riconsegnato a una coppia di amanti che lo stanno sorseggiando, su una terrazza illuminata e semi deserta di una bar, dove ancora una musica quasi impercettebile sta continuando a suonare dagli altoparlanti del suo sistema audio. Rimango sempre molto scettico, con una nota piuttosto arrogante ed un’altra invece che stona in un singolo apice di gelosia, quando incrocio scenari di questo genere. Non riesco a capacitarmi di come molto spesso, le persone bevano senza bere, o parlino senza realmente dire qualcosa, oppure di come stiano di fronte a quella bottiglia senza avere la minima percezione dell’uno e dell’altro. Meglio lasciare la sala di ogni spettacolo una volta che esso è finito, potrebbe essere svantaggioso trovarsi in prima fila quando quest’ultimo non corrispondeva a ciò che volevi realmente vedere. Continuo a muovermi per le vie del centro di questa città, continuo ad osservare tutto ciò che compare e scompare, giochi di luce ed ombra, sempre gli stessi ed i medesemi ovunque. Sento spesso queste parole uscire dalla bocca dei più. Mi piace sviscerare le persone a suon di domande, forse perchè mi piacciono le persone autentiche e le frasi fatte non mi sono mai state molto simpatiche. Spesso aiutano a mascherare le intense emozioni che che stanno velocemente portando alla rovina un “bel paese”. Questa sera, in cui la luna sorride some un gatto Persiano in un cielo d’un blu, che somiglia maggiormente ad un calamaio d’inchiosto, nel quale uno scolaro piuttosto creativo ha disegnato un sorriso con del bianchetto correttore, mi appare chiaro che non c’è amore quando non c’è scelta. Qui sembra che siano le persone stesse a non concedersela. Non capisco come sia possibile sorseggiare una birra fresca seduti sullo stesso muricciolo dove, molto probabilmente, uno scutore come Antonio Canova ha sorseggiato il suo calice di cabernet e non cogliere l’immensa ispirazione che una sera serena ed un panorama così vivace e vario, consegna nelle mani dello sculture. Non v’è meraviglia del proprio creato, non v’è valore reale nella propria storia. Dunque, Italia è espressione geografica. In Italia non esiste popolo, ma moltissime persone. Forse non è il caso di chiamarli italiani. Meglio chiamarli per il nome che i loro genitori hanno scelto per loro, quando ancora vivenano di qualche sogno leggero in più, rispetto ad oggi.
Tutto scorre troppo rapidamente, tutto cambia, quasi, improvvisamente. Mi sto muovendo e sto scorrendo attraverso un flusso intenso di immagini pazzesche. Strabilianti edifici in rovina, moderne abitazioni lussuose circondate da edere rampicanti, lanterne che illuminano corsi d’acqua vecchi come le montagne che limitano i confini di ciò che è Italia da ciò che invece inizia ad essere Germania. Chiacchero vivace, rido con amici di vecchia data e continuo a bere non curante dei postumi che tutto quest’alcol mi causerà tra poche ore. Si scambiano informazioni ed esperienze di posti molto distanti tra loro. Un amico Danese conversa con il compagno Olandese di mia sorella, caro amico mio di vecchia data e strabiliante creatore di situazioni stravaganti. Un caro amico sorride insieme a me mentre la conversazione sta prendendo una divertente piega di scherzi sulla natura afrodisiaca ed allucinogena di droghe leggere, di legale consumo in regioni al dilà dei confini alpini. Aprire la propria mentalità sembra non sia altrattanto possibile nel perimetro interno a questo grande arco montuoso. Mi scontro di continuo con pesanti portoni, che sbarrano palesemente l’ingresso in qualche dicastero d’ignoranza e potere. Pare sia impossibile anche per una piccola città non poter rimanere priva di simili palazzi. Spesso in questo paese si incotrano altari di cristallo. Ti permettono di vedere reliquie ormai decomposte di oscenità signorili e dominanti appartenti al passato, sul quale si stampa il mio volto sconvolto. Purtroppo ancora non abbastanza putrefatte per essere raccolte e buttate nel dimenticatoio del tempo e della storia. Passano due sorsi ed ho finito il mio drink, ora passiamo da un locale al prossimo. Non puoi fare a meno di bere, non esiste un attimo in cui i miei occhi non incorcino un altro bicchiere colmo per poi svuotarlo a suon di chiacchiere, sigarette e quant’altro. Meglio la botte vuota ... si può sempre riempire di qualcosa di migliore, anche se non sempre è garantito o possibile.

Mi siedo rattristato davanti alla finestra di un bar ed osservo incuriosito quei volti che illuminati da null’altro che semplice luce, si muovono in cerca del proprio interlocutore. Si scambiano opinioni su mode alimentari, seduzioni attraverso stili culinari e di abbigliamento. Si conotorcono immagini di reparti ospedaliari di chirurgia estetica con cliniche psichiatriche per recupero di anoressiche e bulimiche. Tutto in pochi istanti e nella più totale noncuranza dello scempio che il gusto per qualcosa di imposto porta sul corpo di chi schiavo subisce, pur avendo le armi necessarie per non portare più le catene meglio sostituite dallo stile così vivace di una conversazione che sinceramente non necessita di un intuito straordinario per capire che non porta a nulla che sia qualcosa di profiquo e di realmente interessante, per quanto, personalmente, mi riguarda ... Cerco di fare conversazione. Mi appiglio al classico tema: “taglio di capelli: oggi moda oppure semplice gusto?”. Non di certo un argomento che suscita interesse da parte mia, ma certamente da x si può arrivare a 1x che è sempre diverso da x. Giusto ed ovvio, perfetto e coinciso come sempre. Matematica, risolve sempre quello che normalmente non riuscirei a spiegare senza scrivere o discutere per ore, in pochi semplici segni comprensibili a tutti. Parlo con una donna, porta una maglietta dei Joy Division, brache nere, scarpe dallo stile Weimaraner ArbeitKlasse. Ha i capelli completamnente rasati, e porta un copricapo spesso utilizzato dalle giornaliste occidentali in reporatge sulle guerre Islamiche o in paesi devastati da un incomprensibile oscenità religiosa ed economica. Il commercio e la religione. Troveranno un modo per integrarsi senza più cozzare in innumerevoli moti distruttivi per tutti? Ricorda la Maddalena, ricorda chi si pente per non essere rimasta fedele alla sua indole, una figura unica di dignitoso sconforto. Un’immagine di acuta intelligenza e consapevolezza che il suo declino è stato sostituito dalla mancanza di qualcosa di impalpabile per chiunque abbia scoperto d’essere innamorato e non ne ha mai assaporato il gusto, mai ha potuto palpare o semplicemente carezzare l’opera del suo amore. Nelle sue parole, nelle sue descrizioni e spiegazioni, in tutti i gesti espressivi delle sue mani, del suo corpo, c’è quel chiaro messaggio di chi sa d’aver incontrato me stesso e che in me stesso ha trovato quell’angolo nel quale riporre tutte le verità che ancora pesano. Parlami di droga, parlami di moda, parlami d’affetto verso la musica e di una repulsione condizionata dal tuo tentativo di rimanere astinente dalle immagini dei tuoi peggiori incubi. Deforma i nomi in miti, chiama altri quando chiami e cerchi te stessa. Lo fai, bellissima creatura, lo stai facendo. T’ascolto mentre mi parli di qualcun altro, ma vedo esattamente nel tuo sguardo di chi stai parlando. Potrebbe essere realmente la storia di un amico quella che mi stai narrando, ma comune alla sua si sente il trasporto che ti unisce alle parole che suonano la vita di quest’altra persona, ora tra noi invisibile, ma nel verde chiarissimo delle tue iridi, ben evidente e visibile rimane che stai parlando anche di te stessa. S’illumina il tuo sguardo mentre cerchi disperatamente di andare a parare dove ti senti meno in pericolo, ma d’altronde sai che non puoi nascondere quello che sei, che sei stata, non riesci a mascherare la pena, il peso, il dolore. Si riesce a leggere tutto di te ma anche se è di facile intuzione la fine del racconto rimane comunque un piacere arrivare insime fino all’ultima lettera. Interessato interloquisco con te. Non ricordo il tuo nome, voglio chiamarti Marilena, si ti chiamo così. Marilena, addolcisce, quell’immagine più volte dipinta, di una donna in pena per aver amato il figlio di dio, irragiungibile ed elevato a tal punto che per raggiungerlo devi aspettare d’aver vissuto tutto l’arco del tuo tempo. Marilena non è Maddalena. Hai raggiunto troppo rapidamente il paradiso, e poche ore più tardi hai capito che per poter rimanere nell’alto dei cieli è indispensabile non saltare le tappe del tuo viaggio.  Marilena, ricordi un fiore meraviglioso che è sbocciato in un cumulo di sassi sporchi e di case in rovina. Marilena ricordi un giglio color lilla che beve la fresca acqua del Brenta alle ore più fresche d’una tiepida sera d’estate, mentre il sole scende tra le vette rocciose delle prealpi e si inabissa nel verde cupo della Valsugana.
T’ascolto e t’osservo. Ti scruto e mentre taccio comunque sai che ti sto chiedendo tutto quello che voglio sapere. Sei talemente vera e nitida che potrei stare ore a rimirare ed ascoltare tutto quello che mi stai dicendo. Mentre il tuo sillabare ogni parola trasmette il significato della tua vita. Ogni segno vocale è carico del tuo vissuto. Non mi sento in grado di giudicare ciò che sei, non riesco a essere distratto. D’altronde tra noi, Marilena, il cristallo non divide, ma contine, le lacrime che stiamo versando ogni giorno per noi stessi, per gli altri. Siamo il vaso di vetro che contine e nutre la nostra essenza, possiamo essere un incredibile varietà di fiori, siamo tutti diversi l’un l’altro. Non basta il settanta per cento d’acqua di cui siamo fatti, però, per nutrire la nostra intera bellezza. Forse, e tu Marilena me lo stai ricordando, per essere splendidi frutti del creato e del caso, come tu sei, bisogna aggiungere anche un buon venti per cento di lacrime, dolci o amare che siano. Ed è così che sento questo posto intero ...  Marilena, te lo sto dicendo, tu lo sai: tutto il vetro del mondo non basta per proteggere il fiore che sei, nemmeno sotto la geometria antiquata di una campana. Attraverso un vetro, attraverso uno specchio, attraverso un crtistallo, non ha importanza, d’altronde se consideriamo l’essere umano come una bottiglia, un bicchiere o un vaso, possiamo tranquillamente dedurre che non c’è molta differenza tra la composizione molecolare umana e quella invece composta dai maestri Veneziani per risultare un oggetto brillante sopra i nostri mobili domestici. Come il nostro aspetto, esso cambia sempre ma la sostanza rimane invariata, sono i contenuti che soggettivamente o meno ci piacciono oppure no e quelli, per forza di cose, col tempo mutano, e Marilena, se il risultato è ciò che vedo, invecchiare ti ha resa meravigliosa.
Mi dispiace ammettere che per tutti non sia così. A giudizio di alcuni, potrebbe non piacere a molti il sapore della mia essenza, nonostante stia facendo, in questo istante, del mio meglio, per riempire la mia anima di dolce nettare degli dei ... e vetro per attorno oppure no, in vino semper veritas.


F.M.

martedì 9 luglio 2013

IL PENTAGRAMMA MAGAZINE: PRESENTAZIONE 15° NUMERO "VETRO"

SABATO 27 LUGLIO
USCIRÀ FINALMENTE L'ATTESISSIMO QUINDICESIMO NUMERO DEL
PENTAGRAMMA MAGAZINE *VETRO*


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sabato 25 maggio 2013

The disappearing frame



Ogni parola è una cornice


There’s more to the picture
than meets the eye
Hey hey, my my
N. Young, My My, Hey Hey (Out Of The Blue)


Ogni parola è una cornice, a quanto pare. A voler essere più precisi: ogni tentativo di dire qualcosa, di comunicare – a se stessi o agli altri – un pensiero, un sentimento, un proposito; ogni frammento di linguaggio che, più o meno articolato, più o meno efficace, voglia descrivere un pezzo di mondo, fa qualcosa di tanto invisibile quanto essenziale: riconferma un orizzonte entro il quale quelle parole hanno senso per qualcuno. Difficilmente lo sposta, lo restringe, lo allarga. Diventare consapevoli di ciò è la via maestra per comprendere che come diciamo qualcosa è parte stessa di cosa stiamo dicendo: tratti apparentemente accidentali in comunicazioni sedicenti neutre, come il tono, il vocabolario utilizzato e – ancora di più – la combinazione delle parole, sono tutti elementi decisivi, che lo si sappia o meno; che lo si voglia o meno. Nulla di straordinario, si dirà: chiunque abbia avuto a che fare con se stesso o con altri essere umani per qualche tempo, ha vissuto esperienze più o meno traumatiche, legate al carattere eccedente di ogni discorso, al suo essere semplicemente quello che è – un insieme di parole, di segni sulla carta, di suoni – e al tempo stesso mostrare qualcosa che nessuna parola potrà spiegare, perché sarebbe una chiosa inutile o ridondante, un arrivare in ritardo ad un appuntamento decisivo. L’ha cantato bene Neil Young: «C’è più nell’immagine / di quando l’occhio possa vedere»; e se ogni parola è una cornice, una cornice che quando viene vista scompare, allora quel di più, quell’eccedenza, sarà il segno di una sconfitta inevitabile: chi voglia togliere la cornice, vedrà sbriciolarsi il dipinto tra le mani. Eppure, non possiamo fare a meno di dimenticarci di questa ovvietà, per gran parte della nostra esistenza.

Di tale, preziosa intuizione si è servito, in anni recenti, un linguista statunitense, George Lakoff, attento studioso del ruolo della metafora nella vita quotidiana di ognuno – quindi, del carattere poetico di ogni linguaggio, scientifico o ordinario che sia. Lakoff parla di “cornice” (frame) per indicare quello che noi abbiamo sommariamente indicato come orizzonte di senso e che, dal punto di vista delle sue applicazioni ed implicazioni politiche, risulta essere il vero campo di battaglia di ogni discorso che voglia convincere. Elettore e sostenitore del Partito Democratico, Lakoff vide il progressivo – e tutt’altro che progressista – piegarsi della retorica liberal alle parole d’ordine dei repubblicani, in particolare in occasione della campagna elettorale che portò al secondo mandato di George W. Bush, vittorioso sul democratico Kerry. Lo sconcerto e la preoccupazione di Lakoff furono grandi, non tanto – non solo – per la seconda affermazione del Presidente che aveva voluto gli interventi militari in Afghanistan e Iraq, infiammandoli con la benzina del fanatismo religioso delle sette protestanti americane; ciò che più preoccupava Lakoff, scienziato del linguaggio e cittadino, era la conquista, da parte dei repubblicani, del frame, della cornice di senso entro cui ogni discorso avrebbe dovuto inserirsi per essere anche solo ritenuto legittimo dalla comunità politica: una volta imposto il proprio frame come codice di riferimento per il dibattito pubblico, un movimento (politico, religioso, etc.) ha di fatto posto le basi per una facile vittoria, perché anche il discorso che voglia porsi come radicalmente alternativo, dovrà usare le sue parole – il suo tono, le sue metafore – per essere ascoltato. Riconfermando, con ciò, il discorso del vincitore. È quanto accadde, a detta di Lakoff, alla parola “libertà”, tanto cara all’immaginario statunitense: una parola complicata, che si dice in molti modi e viene usata da persone con convinzioni e atteggiamenti molto diversi, prestandosi allo scontro retorico per la supremazia “di sfondo”. Chi riesca a persuadere la società civile della bontà del proprio concetto di libertà, avrà vita facile a condurre i giochi politici e a mostrare il carattere “illiberale” dell’avversario. Questi, da parte sua, nell’immediato potrà solo cercare di limitare i danni e cominciare un lungo lavoro contro-culturale, per provare a cambiare cornice – e a dipingere, quindi, uno scenario differente. Sì, perché è vero che il carattere inapparente del frame, il suo scomparire nelle parole che incornicia, lo rende difficile da riconoscere e quindi quasi inattaccabile; eppure, in quel “quasi” c’è molto: c’è il logorarsi delle parole che pensavamo eterne, c’è lo slittamento semantico, il mutar di senso di vocaboli e concetti, dal momento che questi sono pur sempre parte di una forma di vita, di scontri e incontri, condizioni economiche e sociali, bisogni e desideri privati o pubblici (sempre di più: privati e pubblici). Ogni cornice, anche la più bella, anche la meno visibile, può presentare alla lunga delle crepe.

Incontrandoti per strada, ascoltando una canzone, mangiando con le mani, ripensando al tempo trascorso e accorgendomi che le cose non erano andate esattamente così come avevo pensato fino al giorno prima, ascoltandoti o lasciandomi guidare da un’esitazione dello sguardo, posso anche rinunciare a convinzioni che, all’improvviso, mi sembrano di comodo, accettate per abitudine o per paura. Sembra dirci questo, George Lakoff. 
Sembra cantare questo, Neil Young.

Hey hey, my my.


M.P.



Da leggere            George Lakoff, Don’t Think Of An Elephant! (2004) (tr. it. di B. Tortorella, Non pensare all’elefante!, Fusi Orari, Roma 2006)
                                George Lakoff, Whose Freedom? The Battle Over America’s Most Important Idea (2006) (tr it. di V. Roncarolo, La libertà di chi?, Codice edizioni, Torino 2008)
Da ascoltare          Neil Young, My My, Hey Hey (Out Of The Blue), da Rust Never Sleeps (1979)
Da vedere             Hal Ashby, Harold e Maude (USA, 1971)