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mercoledì 31 ottobre 2012

Antonia Pozzi: “Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta…”

Come avrebbe potuto essere letta, capita, interpretata una giovane donna dotata di un’intelligenza e di una sensibilità fuori dal comune nella Milano degli anni ’30?

Antonia Pozzi come poetessa è oggi forse ancora troppo poco conosciuta, proprio lei che in una pagina dei suoi Diari scrive dell’umiliazione e di quanto si era pentita a mostrare i suoi versi al suo professore di estetica, Dino Banfi, dell’Università Statale di Milano. Proprio lei che si era sentita dire da uno degli amici intellettuali banfiani – gruppo nel quale si potevano contare nomi come Vittorio Sereni e Luciano Anceschi – di scrivere “il meno possibile”.

Proprio lei, le cui poesie, pubblicate nel 1939, un anno dopo la morte, ricevettero invece consenso e ammirazione da Eugenio Montale che le dedicò una nota critica nel ‘ 45, sul “Mondo” di Firenze, articolo nel quale le riservò uno spazio specifico nella storia della poesia italiana del Novecento.



Ma ai tempi dell’università una sensibilità come quella di Antonia non poteva non collidere con il solido razionalismo filosofico dei banfiani: “Gli schemi della mia personalità si sono rotti a contatto con le loro personalità forti”, scriveva il 4 febbraio del ’35, “mi hanno fatto molto bene, perché non hanno avuto nessuna pietà. E sono indulgenti solo quando in realtà me lo merito […]”.


È del Natale del 1926, quando Antonia aveva solo quattordici anni, una pagina di diario che ci può far capire quanto questa bambina- ragazza “sentisse” e quanto riuscisse già a comunicare, attraverso la pagina scritta, un’analisi profonda di se stessa, un’ inquietudine esistenziale e una finezza psicologica grandissime:

“E’ passato anche questo Natale. […] giorno dunque di festa, ma, come ogni data singolarmente importante o solenne , giorno di rimpianto per quelli passati. Sentimento strano, ingiusto in me, che sono ancora quasi bambina, che dovrei guardare solo all’avvenire, fiduciosa, serena! […] Ho paura, e non so di che: non di quello che mi viene incontro, no, perché in quello spero e confido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemmeno vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita, e non lascia sul palmo che un senso spiacevole di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi, coì anche del tempo che passa resta a noi la traccia […]”.



Questa paura, e non so di che, accompagnerà Antonia nei suoi anni successivi, dall’amore duraturo ma senza futuro e senza sbocco per il professore di liceo, Antonio Maria Cervi, all’ ambiente dell’università, all’ultima lettera inviata ai genitori, il primo dicembre 1938, dove parla della mancanza di un “affetto fermo, costante, fedele”, di un “male dei nervi” che le toglieva “ ogni forza di resistenza”, di una “disperazione mortale” di cui faceva parte “anche la crudele oppressione che si esercita sulle giovinezze sfiorite…”.



È la paura che ha dietro, sullo sfondo, una guerra imminente, ma è soprattutto una paura più privata e personale, una paura che si prova ancora oggi, a cento anni dalla nascita di Antonia, per la troppa vita che si ha nel sangue.



G.D.C



Testi consigliati:
Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di G. Bernabò e O. Dino, luca sossella editore, Bologna, 2010.

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