cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 24 novembre 2012

venerdì 16 novembre 2012

"Paralisi" di Giovanni De Agnoi



"Paralisi"
di Giovanni De Agnoi

Il volto

Quella sera mi ero attardato fuori con gli amici e quando prestai attenzione all'orologio la mezzanotte era passata da poco. Decisi allora di congedarmi dall'allegra compagnia e di affrontare la via del ritorno. Sentivo sulla pelle l'aria fresca di fine estate e la luna alta nel cielo m'illuminava leggermente il volto. Non vi era nessuno oltre a me, persino lungo le vie principali pochi erano i fari che mi sfrecciavano accanto. Un senso di potere mi pervadeva, come se fossi l'ultimo uomo rimasto sulla terra. La mia ombra si allungava innaturalmente passando sotto i lampioni accanto alla strada e io procedevo a passi lenti e regolari. Stranamente il senso di fretta che avevo provato alla partenza era completamente svanito. Ora ero tranquillo, immerso nella solitudine della notte e dei miei pensieri. La luna ascendeva lentamente mentre mi inoltravo per alcune vie secondarie. Ebbi subito la malevola sensazione di essere entrato in un mondo parallelo, un mondo scuro, privo di qualsiasi forma di luce, coperto dal nero velo notturno. Questo fu il forte sentimento che mi oppresse, un'angosciosa sensazione di innaturale terrore. Non ne capivo il perché. Quelle strade mi erano così familiari sotto la calda e rassicurante luce del sole, ma in quel momento, nell'oscuro ventre della notte, tutto era diverso, grottesco, storpiato. Mi guardavo intorno con aria sospetta, i miei sensi erano divenuti ipersensibili.
Lo scricchiolio leggero di una foglia secca, il movimento delle fronde scostate dal vento, persino il rumore delle gocce che cadevano in terra, tutto mi faceva sobbalzare. Gli angoli bui si affollavano intorno a me. Mi sentivo seguito, sentivo delle presenze nell'oscurità ma sapevo che era solo il folle gioco della mia mente, non ero più padrone della mia vista o del mio udito. Dietro l'ombra non vi era nulla. Senza volerlo velocizzai il passo e cominciai ad ansimare sommessamente. La sensazione di disagio si stava completamente impadronendo di me. Odiavo quella momentanea solitudine, la odiavo con tutto me stesso. Svoltai l'angolo e mi trovai a poche vie di distanza dalla mia dimora. Come supponevo la strada era totalmente vuota. In lontananza sentivo il leggero abbaiare di un cane, ma era come l'eco di un'era lontana. Continuavo a camminare, ora tenendo la testa bassa per timore che qualcosa attraversasse il mio cammino. Il silenzio regnava sovrano. Quando arrivai alla fine della stretta via alzai lentamente gli occhi, mi trovavo di fronte ad una grande casa bianca con un ampio giardino. Ero passato molte volte per quella strada ma non mi ero mai soffermato su quella singola casa. Notai, dopo un rapido sguardo, una piccola finestra che dava su un balcone, posta probabilmente al secondo piano. C'era qualcosa che attirava la mia attenzione e che non mi permetteva di proseguire. Guardai più attentamente e solo in quel momento lo notai. Il sangue mi si gelò nelle vene e per un istante non riuscii più a respirare. Possibile che la mia mente mi avesse abbandonato. Stavo probabilmente sognando ad occhi aperti, certamente non poteva essere reale. Affacciato alla finestra vidi un'orribile volto cadaverico. Due piccoli occhi, di un colorito azzurro cristallino ma privi di ogni scintilla vitale, erano incastonati in due grandi conche scure di carne rafferma. Del volto, il cui colorito biancastro brillava fievolmente alla luce dei lampioni, non capivo bene i contorni. L'oscurità che lo circondava me lo impediva. Il naso, proporzionato al viso, era leggermente arcuato e le fini labbra violacee erano chiuse in un'espressione dura e impenetrabile. La figura era immobile, talmente vicina al vetro che qualsiasi altra persona avrebbe lasciato grossi aloni di caldo respiro. In questo caso invece essi erano del tutto assenti. Cercai di distogliere l'attenzione da quell'orribile immagine ma capii che non ci sarei riuscito; ero come ipnotizzato. Ad un tratto quegli occhi così freddi e innaturali si posarono sulla mia esile figura. In quel momento mi sentii perduto. Non vi era posto sulla faccia della terra dove potessi nascondermi, quello sguardo mi avrebbe sempre trovato. Cominciai a tremare. I miei occhi erano velati da un'ombra che non riuscivo ad allontanare. Lì, al secondo piano della grande casa bianca, affacciata alla finestra, qualcosa mi guardava, scavava nei miei pensieri e prendeva possesso del mio animo e del mio corpo. Un grido ruppe quell'atmosfera onirica, un grido inumano che, con mio grande orrore, proveniva proprio dalla casa che avevo di fronte. Staccai il mio sguardo dalla finestra e mi guardai attorno, come appena svegliato da uno stato comatoso. Pregai le mie gambe di portarmi più lontano possibile da quel luogo maledetto ma esse non mi ascoltarono. Rimasi immobile, pietrificato come una statua greca. Istintivamente il mio sguardo cercò nuovamente la piccola finestra. Oh mio Dio quanto sperai che non vi fosse più nulla. Ma egli era ancora lì fermo e mi osservava silenzioso.
Notai però un orribile cambiamento nella sua espressione. Le sottili labbra violacee si erano leggermente sollevate in un sorriso, un sorriso freddo, osceno e mortifero. Delirai. Le catene che mi tenevano fermo si ruppero ed io cominciai a correre in preda al terrore primordiale. Non ricordo come feci ad arrivare a casa, mettermi a letto e soprattutto ad addormentarmi. La visione di quel volto era viva nella mia mente, come se fosse sempre lì di fronte a me. La mattina dopo mi svegliai grondante di sudore. Mi guardai attorno spaesato. Tutto sembrava indistinto, irreale. Non ricordai immediatamente quel che era successo la notte precedente e quando tutto mi tornò alla mente mi sembrò quasi una favola. Mi convinsi che si trattava solo di un orribile incubo. Ora, sapendo che nulla era realmente accaduto, mi sentivo meglio. Il senso di disagio lentamente svanì, come trasportato da un tiepido vento. Mi sedetti sulla sedia e feci colazione, poi con molta calma lessi il giornale. Fu solo all'ora che tutto quello che avevo provato nella mia assurda esperienza notturna, tutta la paura, l'oppressione e l'estremo terrore mi ricaddero addosso come una frana. Il respiro mi si strozzò in gola quando lessi sul giornale che nella notte una giovane donna era stata rinvenuta morta proprio nella casa bianca con l'ampio giardino. La stessa casa che, da allora, fa da sfondo a tutti i miei peggiori incubi. Accartocciai il giornale in un impeto di furia e lo gettai sul pavimento. Cercai nuovamente di convincermi ma fu tutto inutile. Le mie mani stringevano i braccioli della sedia come due artigli. Sapevo...lo sapevo fin troppo bene ma non volevo crederci. Non dovevo crederci! Ero impazzito ecco la verità, non sarei più stato lo stesso dopo quella notte. Una parte di me era rimasta lì in quella stretta via ad osservare, oltre una piccola finestra posta al secondo piano, il volto stesso della morte.



M.C.

sabato 10 novembre 2012

Horror vacui vs Amor vacui

Lo spazio nel linguaggio architettonico tra paura e negazione


Immaginiamo una casa vuota al suo interno, in un certo senso non riempita, considerando quello che normalmente si ritiene un blocco, una casa in cui non ci sia niente: come una tana nella terra? La gente di montagna, così almeno chiamata dai fratelli Grimm, considerava la tana come un contenitore di dimensioni determinate costituita originariamente da tronchi scavati che serviva per trasportare la pietra.

La casa sarebbe forse un tale contenitore? O piuttosto la casa, secondo la nostra idea, osservandola dall’esterno è piena, di stanze e passaggi vuoti, ma ugualmente pieni come se l‘abitare vi penetrasse?
La casa sarebbe dunque sempre riempita da uomini, abitata e un qualcosa di per sé “pieno”?
Assolutamente no: ciononostante, nella nostra idea, immaginiamo la proprietà di colui che la abita: la casa sembra abitata, mostra la sua pienezza, eppure nella tana vuota nessuno è a casa.
Invece, per la costruzione di una casa, nel linguaggio tecnico si parla di spazio vuoto. Pure l'architetto Louis Kahn sosteneva che “l'architettura nasce dalla costruzione di una stanza”.
Prima dell’ingresso del nuovo inquilino si parla semplicemente di un alloggio vuoto, anche se le camere sembrano già vuote solo a causa dell’assenza di mobili?
Nella nostra mente, inizieremmo così volontariamente a usare l’alloggio, ad arredarlo, a dotarlo di una propria collezione di mobili e, come fosse un gioco, a renderlo abitabile? Le stanze annunciano già, vista la loro rappresentazione in scala, la loro dedizione all’abitare con le relazioni tra spazi e abitanti.
E' una forma di “horror vacui” anche questa?
Eppure non ce ne rendiamo conto, lo neghiamo inutilmente. Banalmente colleghiamo questo stato d'animo all'architettura barocca, ma in realtà ci conviviamo ancora.
Ci si è scontrati tutti con questo: la paura del vuoto o, per esteso, la paura del niente. Una stanza vuota, il foglio bianco dell'architetto, la mancanza di punti di riferimento, l'assenza di un orientamento familiare: da dove iniziare? Da dove arriva tutto questo? Com'é cambiata la nostra percezione del vuoto?

Barocco a parte, una prima riflessione può partire dal contrasto creato tra classicismo e contemporaneità, dove l'approccio "artigianale" di un'architettura Vitruviana si contrappone ad un'idea industriale e meccanizzata, ovvero quella di un architetto come " un muratore che ha imparato il latino", almeno secondo Adolf Loos; e non si capisce se c'è più sarcasmo nei confronti del "muratore" o nei confronti del "latino".


Al di là dell'evidente ironia, si coglie nelle parole di Loos un concetto di "cultura" staccata dalla pratica professionale. Come a dire: a cosa può servire il latino ad un muratore? 
Ma c'è un fondo di "nichilismo che accompagna effettivamente il suo pensiero. Un "horror pleni", che fa pensare per contrapposizione a quell'"horror vacui" che ci fa riempire le pareti di casa di quadri e quadretti. Sembra dunque che la filosofia di Loos conduca verso un limite opposto, verso una ripulitura maniacale di ogni sovrappiù formale, (ci fa staccare dalle pareti tutti i quadri), fino al raggiungimento di una pulizia elementare, come se ciò costituisse inevitabilmente il riflesso di una purezza morale ed etica.

Questo approccio al progetto, che possiamo riscontrare in tanti esempi contemporanei, può procurare una sorta di immobilismo creativo come se ci chiudessimo da soli certe possibilità formali per una sorta di gusto autopunitivo. Di fronte a queste architetture viene da pensare che un motivo oscuro, o peggio una scelta formale, impedisca all'autore di esprimersi nella pienezza di forme e colori.

Si sente in queste architetture la mancanza del riso, del rumore, manca lo sporco, l'indecisione, il sesso; mancano cioè alcuni aspetti fondamentali della vita umana. Ora, per quanto non si possa pensare all'architettura come ad un'espressione folle ed irrazionale, risulta difficile credere ad una razionalità talmente programmata che escluda qualsiasi sussulto emozionale, che farebbe irrevocabilmente crollare la geometria del programma.

Se oggi sembra presente una sorta di pudore a parlare dell'artisticità dell'architettura, ciò è spiegabile per diversi motivi.
Prima di tutto, dal '500 in poi, si è venuta a sviluppare un'idea "romantica" della figura dell'artista, come prototipo di genio e sregolatezza, che mal si sposa ad un'arte che nella “firmitas”, quindi nell'aspetto tecnico, trova uno dei suoi pilastri fondamentali.
In secondo luogo, questa specie di pregiudizio contro la figura artistica dell'architetto è anche il retaggio di una lunga esperienza funzionalista e razionalista: che ha occupato larga parte di questo secolo e che aveva posto la "funzione" come generatrice della forma architettonica e quindi come "significato" dell'architettura.

Ma la funzione è la "materia" dell'architettura, che solo attraverso una certa "forma" riesce a concretizzarsi. Alla fine si ritorna sempre su un solo concetto"la forma segue la funzione", che è tuttora valida per  la cultura architettonica contemporanea.

Ma il razionalismo non è la verità assoluta, ed è proprio nell'evoluzione dell'opera di alcuni maestri del Movimento Moderno che possiamo notare un orientamento al superamento delle posizioni razionaliste (valga per tutti l'esempio di Le Corbusier nella cappella di Ronchamp). Tutto ciò a dimostrazione di un'evoluzione e non di un rinnegamento delle antiche posizioni.

E il razionalismo funzionalista che era nato e si era alimentato in contrapposizione ad un formalismo fine a se stesso, finisce per diventare un'applicazione di schemi formali ormai completamente vuoti di significato. In definitiva il razionalismo, decontestualizzato sia culturalmente che tecnologicamente, si trasforma (ironia della sorte!) in un "formalismo razionalista", cioè l'esatto opposto della sua matrice originaria. E difatti dagli anni '60 in poi si è venuta a creare una crisi funzionalista, divenuta via via più profonda, che ha riproposto il problema della forma architettonica, e quindi del suo significato, come qualcosa di non ascrivibile alla pura e semplice interdipendenza forma-funzione.


L'architettura ha così recuperato nella propria "materia del contenuto" le sollecitazioni locali, le esperienze umane individuali, la storia regionale, la memoria culturale, il geniu loci, il crollo delle ideologie, ecc. Tutto questo in quel breve periodo che è stato definito "post-moderno". Più recentemente invece si è avuto, col decostruttivismo, un ulteriore scatto in avanti, da una parte recuperando alcune tematiche già presenti nel razionalismo, come l'estetica anticlassica, dall'altra con l'emergere di nuove traiettorie di indagine che privilegiano l'asimmetria, il dubbio, l'insicurezza di questa fine millennio. O meglio, una nuova forma di “horror vacui”, che va aldilà di una stanza, un foglio, oppure uno spazio vuoto. E' la paura di non avere più radici nella propria cultura, la paura di perdere la storia e il passato.


Nonostante ciò, gli architetti non hanno paura del vuoto, perché, come afferma l'archistar Dominique Perrault, “Il vuoto non può essere considerato nulla”. Coniugare il vuoto con il costruito rappresenta la quotidianità di un professionista indipendentemente dalla sua complessità.
Il vuoto è, se così si può dire, la materia dell’abitabile.
Il vuoto abitato che passa attraverso le aperture e le trasparenze, determina lo spazio tra ciò che è fuori e ciò che è dentro.
Se il vuoto è all'aperto, rappresenta  un paesaggio, un invito alla contemplazione, a meno che il vuoto non sia un terreno vago simbolo di abbandono e di libertà, libero da regole imposte se non quelle della natura.

Quando un vuoto interno prende una certa ampiezza, come la navata di una cattedrale gotica, esso mette alla prova fisicamente e psicologicamente la persona che vi entra e la meraviglia, la trasporta verso il sublime facendole dimenticare la quotidianità.
Perché avere dunque paura di tutto ciò? Come riassumeva il filosofo Martin Heidegger: “il vuoto non è nulla; non è neppure una carenza”.




M.B.