cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 10 novembre 2012

Horror vacui vs Amor vacui

Lo spazio nel linguaggio architettonico tra paura e negazione


Immaginiamo una casa vuota al suo interno, in un certo senso non riempita, considerando quello che normalmente si ritiene un blocco, una casa in cui non ci sia niente: come una tana nella terra? La gente di montagna, così almeno chiamata dai fratelli Grimm, considerava la tana come un contenitore di dimensioni determinate costituita originariamente da tronchi scavati che serviva per trasportare la pietra.

La casa sarebbe forse un tale contenitore? O piuttosto la casa, secondo la nostra idea, osservandola dall’esterno è piena, di stanze e passaggi vuoti, ma ugualmente pieni come se l‘abitare vi penetrasse?
La casa sarebbe dunque sempre riempita da uomini, abitata e un qualcosa di per sé “pieno”?
Assolutamente no: ciononostante, nella nostra idea, immaginiamo la proprietà di colui che la abita: la casa sembra abitata, mostra la sua pienezza, eppure nella tana vuota nessuno è a casa.
Invece, per la costruzione di una casa, nel linguaggio tecnico si parla di spazio vuoto. Pure l'architetto Louis Kahn sosteneva che “l'architettura nasce dalla costruzione di una stanza”.
Prima dell’ingresso del nuovo inquilino si parla semplicemente di un alloggio vuoto, anche se le camere sembrano già vuote solo a causa dell’assenza di mobili?
Nella nostra mente, inizieremmo così volontariamente a usare l’alloggio, ad arredarlo, a dotarlo di una propria collezione di mobili e, come fosse un gioco, a renderlo abitabile? Le stanze annunciano già, vista la loro rappresentazione in scala, la loro dedizione all’abitare con le relazioni tra spazi e abitanti.
E' una forma di “horror vacui” anche questa?
Eppure non ce ne rendiamo conto, lo neghiamo inutilmente. Banalmente colleghiamo questo stato d'animo all'architettura barocca, ma in realtà ci conviviamo ancora.
Ci si è scontrati tutti con questo: la paura del vuoto o, per esteso, la paura del niente. Una stanza vuota, il foglio bianco dell'architetto, la mancanza di punti di riferimento, l'assenza di un orientamento familiare: da dove iniziare? Da dove arriva tutto questo? Com'é cambiata la nostra percezione del vuoto?

Barocco a parte, una prima riflessione può partire dal contrasto creato tra classicismo e contemporaneità, dove l'approccio "artigianale" di un'architettura Vitruviana si contrappone ad un'idea industriale e meccanizzata, ovvero quella di un architetto come " un muratore che ha imparato il latino", almeno secondo Adolf Loos; e non si capisce se c'è più sarcasmo nei confronti del "muratore" o nei confronti del "latino".


Al di là dell'evidente ironia, si coglie nelle parole di Loos un concetto di "cultura" staccata dalla pratica professionale. Come a dire: a cosa può servire il latino ad un muratore? 
Ma c'è un fondo di "nichilismo che accompagna effettivamente il suo pensiero. Un "horror pleni", che fa pensare per contrapposizione a quell'"horror vacui" che ci fa riempire le pareti di casa di quadri e quadretti. Sembra dunque che la filosofia di Loos conduca verso un limite opposto, verso una ripulitura maniacale di ogni sovrappiù formale, (ci fa staccare dalle pareti tutti i quadri), fino al raggiungimento di una pulizia elementare, come se ciò costituisse inevitabilmente il riflesso di una purezza morale ed etica.

Questo approccio al progetto, che possiamo riscontrare in tanti esempi contemporanei, può procurare una sorta di immobilismo creativo come se ci chiudessimo da soli certe possibilità formali per una sorta di gusto autopunitivo. Di fronte a queste architetture viene da pensare che un motivo oscuro, o peggio una scelta formale, impedisca all'autore di esprimersi nella pienezza di forme e colori.

Si sente in queste architetture la mancanza del riso, del rumore, manca lo sporco, l'indecisione, il sesso; mancano cioè alcuni aspetti fondamentali della vita umana. Ora, per quanto non si possa pensare all'architettura come ad un'espressione folle ed irrazionale, risulta difficile credere ad una razionalità talmente programmata che escluda qualsiasi sussulto emozionale, che farebbe irrevocabilmente crollare la geometria del programma.

Se oggi sembra presente una sorta di pudore a parlare dell'artisticità dell'architettura, ciò è spiegabile per diversi motivi.
Prima di tutto, dal '500 in poi, si è venuta a sviluppare un'idea "romantica" della figura dell'artista, come prototipo di genio e sregolatezza, che mal si sposa ad un'arte che nella “firmitas”, quindi nell'aspetto tecnico, trova uno dei suoi pilastri fondamentali.
In secondo luogo, questa specie di pregiudizio contro la figura artistica dell'architetto è anche il retaggio di una lunga esperienza funzionalista e razionalista: che ha occupato larga parte di questo secolo e che aveva posto la "funzione" come generatrice della forma architettonica e quindi come "significato" dell'architettura.

Ma la funzione è la "materia" dell'architettura, che solo attraverso una certa "forma" riesce a concretizzarsi. Alla fine si ritorna sempre su un solo concetto"la forma segue la funzione", che è tuttora valida per  la cultura architettonica contemporanea.

Ma il razionalismo non è la verità assoluta, ed è proprio nell'evoluzione dell'opera di alcuni maestri del Movimento Moderno che possiamo notare un orientamento al superamento delle posizioni razionaliste (valga per tutti l'esempio di Le Corbusier nella cappella di Ronchamp). Tutto ciò a dimostrazione di un'evoluzione e non di un rinnegamento delle antiche posizioni.

E il razionalismo funzionalista che era nato e si era alimentato in contrapposizione ad un formalismo fine a se stesso, finisce per diventare un'applicazione di schemi formali ormai completamente vuoti di significato. In definitiva il razionalismo, decontestualizzato sia culturalmente che tecnologicamente, si trasforma (ironia della sorte!) in un "formalismo razionalista", cioè l'esatto opposto della sua matrice originaria. E difatti dagli anni '60 in poi si è venuta a creare una crisi funzionalista, divenuta via via più profonda, che ha riproposto il problema della forma architettonica, e quindi del suo significato, come qualcosa di non ascrivibile alla pura e semplice interdipendenza forma-funzione.


L'architettura ha così recuperato nella propria "materia del contenuto" le sollecitazioni locali, le esperienze umane individuali, la storia regionale, la memoria culturale, il geniu loci, il crollo delle ideologie, ecc. Tutto questo in quel breve periodo che è stato definito "post-moderno". Più recentemente invece si è avuto, col decostruttivismo, un ulteriore scatto in avanti, da una parte recuperando alcune tematiche già presenti nel razionalismo, come l'estetica anticlassica, dall'altra con l'emergere di nuove traiettorie di indagine che privilegiano l'asimmetria, il dubbio, l'insicurezza di questa fine millennio. O meglio, una nuova forma di “horror vacui”, che va aldilà di una stanza, un foglio, oppure uno spazio vuoto. E' la paura di non avere più radici nella propria cultura, la paura di perdere la storia e il passato.


Nonostante ciò, gli architetti non hanno paura del vuoto, perché, come afferma l'archistar Dominique Perrault, “Il vuoto non può essere considerato nulla”. Coniugare il vuoto con il costruito rappresenta la quotidianità di un professionista indipendentemente dalla sua complessità.
Il vuoto è, se così si può dire, la materia dell’abitabile.
Il vuoto abitato che passa attraverso le aperture e le trasparenze, determina lo spazio tra ciò che è fuori e ciò che è dentro.
Se il vuoto è all'aperto, rappresenta  un paesaggio, un invito alla contemplazione, a meno che il vuoto non sia un terreno vago simbolo di abbandono e di libertà, libero da regole imposte se non quelle della natura.

Quando un vuoto interno prende una certa ampiezza, come la navata di una cattedrale gotica, esso mette alla prova fisicamente e psicologicamente la persona che vi entra e la meraviglia, la trasporta verso il sublime facendole dimenticare la quotidianità.
Perché avere dunque paura di tutto ciò? Come riassumeva il filosofo Martin Heidegger: “il vuoto non è nulla; non è neppure una carenza”.




M.B.

1 commento:

berk ha detto...

Testo molto interessante e ben scritto, tematica affascinante. Senza dubbio questo testo potrebbe esser la sintesi di un libro.
Dalle mie considerazioni potrei aggiungere che oltre all horror vacui - amor vacui - horror pleni- si potrebbe riflettere sull' horror signi (momento del passaggio da horror vacui a horror pleni, e le problematiche relative al gesto di un segno su una carta e cosa porta a cio) e relativo amor signi.