cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

martedì 30 aprile 2013

“Convenire ex nobis cum nostris quattuor facies.” ( Dialgo con le nostre quattro persone)



Kalle, Bjorn, Lundmaar e Fredrik. Quattro come quattro sono i nostri peggiori timori, quattro come quattro sono le nostre principali paure. Quattro perché ognuno di loro può sembrare una di esse guardandoli. Quattro perché è quattro il numero della fine per tutti gli occidentali. Quattro perché è la sintesi dei nostri mali. Quattro perché sono le nostre dimensioni, anche se undici sono dimostrate, quattro ne percepiamo. 

Kalle, castano, dai lunghi capelli mossi, dalla robusta struttura fisica e dotato di una buona altezza. Bello, di vent’anni. Il suo viso ricorda quello di un angelo, che scivolato si chiude nel dolore dell’inferno, ma rimane pur sempre, Lucifero, bello intelligente, seppur nell’invidia. Dalla pelle chiara, dallo sguardo vitreo, sebbene gli occhi siano castani, quasi verdi. Dalla bravura immensa nella musica, dalla scarsa autostima. Dall’odio più profondo, per se stesso, a volte, per gli altri. Si esclude dal parlare come se fosse una pestilenza la sua voce. Come se fosse un incurabile morbo tutto ciò che pensa. Chiuso e silenzioso come un virus, certamente freddo, ma capace di scaldare come un’ infezione. Kalle, d’immancabile ausilio al mondo, per capirlo. Kalle, come il tempo può spurgare ogni malessere, come il tempo invece annienta nella cancrena ogni essere vivente. Kalle nella sua malattia la nostra vita. Lundmaar, magro fino alle ossa. Si riescono a scrutare, guardando nella sua pelle dalle sue braccia. Lunghi capelli castani, biondi un tempo, forse. Gli occhi verdi, il viso scavato dalla fame, dai pensieri sulla vita, dallo studio di essa, dal proporre una cura per se stesso e per gli altri. Tanto lunga la sua esistenza sul mondo, tanto la lunghezza della sua chioma. Consumato dai bruciori gastrici per ogni centimetro di ogni suo capello. Come tutti noi, con tal ulcera, al posto suo, già li avremmo persi tutti. Fine e magre le dita delle sue mani, scavate le fosse degli occhi. Quasi blu la sua carne, per via dell’evidenza delle sue vene, rossa solo la sua bocca, come del sangue che solo li si percepisce scorrere. Bocca usata per proferir parola, sapienza, conoscenza, come dolore su di esse. Ordinato nella sua figura, come un medico, che cura se stesso, tralasciando gli altri. 
A volte, perfino soffocandoli sotto la sua presenza. Cercandoli poi, nell’ora della sua riconciliazione, discontinua quanto la sua fame. Lundmaar, il cui nome si associa alla caverna dove rimane il suono della sua musica. Quell’ombra di chi non vede nulla e non sente il sapore di nulla da sempre. Il suo trono di ghiaccio dal quale canta sui morti. Bjorn, dalla pelle abbronzata e scura, come di un uomo che vive nel vortice di ogni impulso. Dagli occhi castani, più chiari dei suoi capelli, tagliati come la chioma dell’elmo di Ares dio della guerra. Dal fisico longilineo, ma nerboruto, come solo la furia disegna un uomo. Strano Bjorn, affascinante ma non bello. Pesante ed immensa la sua collera, rivelata al mondo, dalla sua frenesia, dal suo vitale scompiglio, dall’alterarsi continuamente, dall’andare e dal venire, dal non ascoltare nulla, dal seguire se stesso fuggire come un nemico sul campo di battaglia. Dall’inseguire la gloria, abbattendosi sul mondo, nemico di ogni suo pensiero. Dal brindare come una divinità alla corte di belle donne, quasi come dee, quasi come immortali, nella sua memoria. Di facili conquiste, brama e vizio si mescolano nel fumo e nel suo amore per il verde e per la natura. D’animo chiaro e deciso, come il rombo di un’esplosione. Come il sincoparsi del suono della sua chitarra elettrica. Dal piacere nell’eccitare tutti in una smorfia violenta spontanea quando si ascolta la sua presenza. Dall’ira viene investito chi sente il suo urlo, chi rimane con lui, si sacrifica in una guerra totale, che non lascia altro che la gloria della propria morte. Morte, Fredrik, il suo specchio. Nulla di più appropriato che il becco d’un corvo che lo annuncia, per descrivere la sua bocca, dai denti d’un lupo formata. Non uno di dritto. Dal naso ambiguo e rotto, come d’un teschio, dal sorriso di lei, nella sua danza macabra. Dai capelli lisci lunghi e scuri. Dalla pelle cianotica d’inverno e rossa ed abbronzata d’estate. Scivoloso ed agile nell’essere sempre accanto a chi vuole portare via nell’ombra. Alto eppure piegato, quasi gobbo, perso ed attento, intelligente e scemo. Vivace e arcigno. Altero e spensierato. Riflessivo ed impulsivo. Vivo ma morto. Fredrik, disgrazia per lui e per gli altri. Insieme d’essere e non essere. Teschio bianco con carne ed occhi color castano. Lineamenti dolci e freddi. Odioso alla luce ma amante del biondo come il sole. Adorabile e sincero, come falso e tagliente. Serpente sia per saggezza che per male. Bestia sia per cattiveria che per libertà. Spietato e appassionato. Come chiunque sia morte ma respiri. Fredrik, colui che scrive del senno e ne agisce il contrario. Fredrik, colui che suona bene quello che fa schifo. Fredrik colui che s’ingegna nelle scienze come colui che ne disprezza i risultati. Fredrik, la fine di tutto e niente. Come una domanda che ha in testa e che si conclude con la stessa ad ogni risposta. Morte e nient’altro è Fredrik che vi attende mentre aspetta se stesso. Chinato forse mentre piange e ride del tempo, come un teschio che non può serrare le labbra.

Quattro storie, per quattro uomini. Quattro racconti per ognuno di loro. Ma è pur vero che in fine, è sempre uno per tutti e tutti per ogni racconto. Si parla di uomini e donne.


F.M.

PARANOIA

Ho frequentato un corso per diventare operatore sociale e questo corso prevedeva prima del diploma, 300 ore di tirocinio presso una struttura idonea alla mia specializzazione, la disabilità.

Ho chiesto aiuto ad una zia che mi ha messo in contatto con alcuni referenti dell’azienda sanitaria locale i quali, dopo un veloce colloquio, mi hanno autorizzata a fare queste ore presso una RSA disabili del distretto.

Innanzitutto, devo dire che il mondo del sociale è un mondo silenzioso, che scorre come acqua lenta e incessante a fianco alla linea della nostra vita. Mai mi sarei aspettata di trovare di fronte a me un mondo così spazioso e presente nella quotidianità di tante persone, i bisognosi per primi, ma anche di tutti coloro che come lavoratori o volontari operano per aiutare e rendere le vite degli utenti il più possibile migliori.
 
 Ma insomma, perché ho scelto di parlare di questa esperienza, cosa c’entra con il tema “paranoia”?
Ho scoperto che, dopo la chiusura delle case di igiene mentale, i comunemente chiamati “manicomi”, gli utenti schizofrenici, paranoici, oligofrenici, per meglio dire, quelli considerati “pazzi” sono oggi degenti in questo tipo di strutture.
Era l’ultima cosa che mi aspettavo avere a che fare con persone fuori di testa, proprio perché io temo questo tipo di malattia, temo che possa succedere a me, come alle persone che mi sono care. Ovviamente il mio blocco era anche nei confronti di questi utenti che non sapevo come gestire. Avevo paura di loro e delle loro reazioni. Non sapevo quanto potevo avvicinarmi, se era giusto che io mi lasciassi toccare da loro, se era normale che mi chiedessero in continuazione di abbracciarli. Vi giuro, ho assistito a scene in quel reparto che ho potuto vedere solo nei film: chi leccava per terra in continuazione e ogni tanto si denudava perché i vestiti gli davano fastidio, chi era convinto di essere posseduto dal demonio e imprecava a Dio e al mondo per questo, ma pochi secondi dopo diventava la persona più mansueta; chi oscillava come un orologio a pendolo da mattino a sera, chi si grattava in continuazione mani e viso e per questo aveva solchi e croste sanguinanti, chi capiva tutto e soffriva in silenzio cercando come poteva di aiutare gli altri, chi invece non aveva reagito allo stesso modo, ma aveva deciso di arrabbiarsi con la vita per ciò che gli aveva concesso. Come biasimarlo.
Uno di loro in particolare mi colpì. Era straniero, arrivato da mesi in reparto, e da mesi aveva scelto di non parlare più. Era costantemente agitato, controllava ogni situazione, si spostava da stanza a stanza per capire cosa succedeva, cosa sarebbe potuto accadere, chi sarebbe potuto arrivare.  Girava scalzo ma con un montone pesante e dall’aspetto molto caldo dove all’interno si era costruito una struttura per contenere più “bombe a mano” possibile: bottigliette di acqua vuote. Certo, fa un po’ sorridere pensare alla scena. Ma quando mi hanno riferito che quest’uomo aveva partecipato ad una missione di guerra e a causa di questo era andato fuori di testa, beh, questo mi ha resa molto triste.

La PARANOIA, la possiamo incontrare nella vita di tutti i giorni, in molte piccole situazioni, in gradi diversi di entità, vestita di nero e blu, circondata da aura viola, una luce pesante, spenta. Nel momento in cui un pensiero diventa cosante e non si riesce a toglierlo dalla propria testa, quando tutto ciò che vedi e che pensi, tutto quello che ti dicono, lo associ a quel pensiero, credo proprio che tu sia “imparanoiato”. È pericoloso, bisogna essere forti in questa società, bisogna sapersi corazzare, reagire, trovare la via sempre. E non è facile, soprattutto se tu hai deciso che non hai voglia di reagire, che sei stanco, che tutto rema contro di te e alle tue decisioni.

La PARANOIA presa sotto gamba si trasforma in male mentale, in deformazione fisica, come spesso ho visto anche in reparto. Braccia accartocciate come rami secchi di alberi in inverno, dita ad uncino, nocche esorbitanti, gobbe, spalle curvissime pronte a portare il peso di un karma troppo pesante da sopportare.

Mi spaventa, e a maggior ragione dopo quello che ho visto. 




Credo che la medicina dovrebbe curare prima di tutto le nostre menti e poi passare al resto se necessario. Il nostro cervello comanda il corpo, gli organi vitali, i movimenti, tutto. Le sensazioni però arrivano allo stomaco e molti dicono che siano raccolte all’interno degli atri del cuore. Come mettere d’accordo cuore e mente?

Penso di avere trovato una semi risposta, facile a dirsi e difficile da mettere in pratica.

Bisogna fare ciò che si ama fare, e farlo con passione e rispetto, per sé e per gli altri. È necessario cercare di essere sempre felici di se stessi.

Questa è la mia paranoia. 


L.P.

sabato 13 aprile 2013

Non il solito articolo su Paranoid Android

Dovendo scrivere un articolo di musica sulla paranoia, e non essendo i Black Sabbath propriamente il mio genere, il pensiero va subito a quel strano capolavoro dei Radiohead, Paranoid Android.  
Uno dei brani più riusciti da parte della band di Thom Yorke tratto dal loro ultimo album prima della sperimentazione elettronica, la pietra miliare Ok Computer. Una canzone, anzi più canzoni fuse in un unico brano che non sembra avere né capo né coda, ma che spiazza nei suoi sei minuti abbondanti in cui musicalmente succede di tutto, ma in modo armonico. Sto ascoltando Paranoid Android  sullo stereo, sono arrivato al punto in cui la musica si fa quiete dopo la tempesta con la voce di Thom Yorke che lamenta “Rain down, rain down, come on rain down on me” con i cori di sottofondo, di qui a poco ricomincerà la tempesta musicale… Ma mi accorgo che io in realtà un articolo sui Radiohead non lo voglio scrivere. Non che sia un gruppo che non mi piace, anzi, Pablo Honey è uno dei miei album preferiti; il mio apprezzamento, o per meglio dire la mia conoscenza della band si ferma però ai primi tre album, prima del passaggio alla musica sperimentale, il mio giudizio quindi non può che essere parziale.

Ma dato che un articolo di musica bisogna farlo, perché invece di sprecare parole per una band sulla quale sono già  stati scritti fiumi di inchiostro (e da pulpiti ben più competenti!) non parlare di un gruppo poco conosciuto scoperto per caso? Tolgo Ok Computer dallo stereo e prendo un cd acquistato ad un concerto, Crowd Surfing il suo titolo. Loro sono gli Heike has the Giggles, trio di ragazzi romagnoli poco più che ventenni scoperti per caso un sabato sera qualunque. Emanuela alla voce e chitarra, Matteo al basso e Guido alla batteria sono tre ragazzi come tanti altri, tre ragazzi universitari con la passione per la musica. Tre, il numero perfetto per chi vuole fare musica senza fronzoli (Police e Nirvana docet). Perché negli Heike has the Giggles nulla è superfluo, tutto diventa essenziale; la loro musica è disarmante nella sua semplicità, pochi accordi ma mai banali, giri di basso accattivanti e una batteria semplice ma che non vi farà mai rimanere fermi. Ma soprattutto lei: Emanuela. 



Frangettona sulla fronte a coprirle quasi interamente il viso, i piedi sempre a seguire un movimento tutto particolare e tutto suo; e poi, la sua voce: per gli amanti del rock al femminile qualcosa di imperdibile, raro trovare una voce così pulita in una ragazza che canta il rock. Ottima la pronuncia e affascinante quel particolare ansimare all’inizio e alla fine di ogni frase (ascoltare We All e Breakfast per capire). Negli Heike has the Giggles, nonostante i soliti tre accordi, c’è comunque varietà: pezzi energici come I Wish I Was Cool e Robot, brani dal sapore adolescenziale come Dear Fear e Crowd Surfing, ma anche canzoni più studiate come le bellissime M.Gondry e Time Waster, senza dimenticare i momenti più toccanti di NextTime e I Don’t Know.
Spero che molte altre persone, come me, possano scoprire per caso gli Heike has the Giggles. Magari pensando di leggere un articolo sui Radiohead.



M.F.



Ascolto consigliato:
Heike has the Giggles, Crowd Surfing (2012)
Heike has the Giggles, Sh! (2010)
Radiohead, Ok Computer (1997)

PaRapanoie


Per 4 persone:

4 rape di media dimensione *
2 spicchi di aglio ◆
sale grosso ✝
pepe nero ★
olio extra vergine ϟ
rosmarino ♥
acqua ❖


Procedimento: In una casseruola adagiate le rape tagliate a tocchi, aggiungete aglio, sale grosso, pepe, olio, acqua sufficiente a coprirle appena, 2 rametti di rosmarino.

Cuocete per circa 35/40 minuti, lasciate asciugare dall’acqua e 6 minuti prima di spegnere il fuoco fate prendere alle rape una leggera rosolatura.



*attenzione se le rape sono rosse il loro colore potrebbe interferire sulla vostra ipofisi che stimolando la produzione di adrenalina aumenterà la pressione del sangue rendendovi energici e magari un po' aggressivi. Meglio evitare il rosso scegliete rape bianche.

◆l’aglio contiene un principio attivo, noto come allicina tiene distante i vampiri. Meno vampiri e più aglio.

✝ attenzione un eccessivo consumo di sale può essere responsabile di malattie come: ipertensioneosteoporosiobesitàictusritenzioneidrica.

★ secondo la biologia molecolare - la chimica del metabolismo - le pietanze pepate permettono alle popolazioni dei climi caldi di difendersi dalle infezioni intestinali. Qualora però si soffra di debolezza gastro intestinale (ulcere, bruciori) dovuta in genere al prevalere di un nostro "ospite batterico", l'Elicobacter Pilorii, il pepe nero soprattutto CRUDO, diventa tossico per il fegato in quanto il calore cambia la sua composizione molecolare.
 
ϟ si tratta pur sempre di un alimento molto calorico, come tutti gli oli e i grassi, ma d'altra parte è anche saziante...In ogni caso, sempre meglio usare gli oli e grassi a crudo, non fritti, e l'olio d'oliva che sia quello extravergine!

♥Il rosmarino (specie l'olio essenziale ricco di canfora) è controindicato in persone che soffrono di epilessia. Causa infatti, specialmente in casi d'iperdosaggio, irritazioni, convulsioni, vomito e principi di paralisi respiratorie.

❖...arrivati a questo punto...forse meglio un po’ di vino?!



G.G. A.L.

Del buon uso della paranoia



C'è qualcosa di diabolico in me
di vecchio e giovane
il mio passato non c'è
io ho, io ho lo sguardo contemporaneo
io ho lo sguardo per le cose lontane
Bugo, Millennia (2006)
La paranoia non esiste, è evidente. Al massimo esistono i paranoici: li si vede vagabondare, o stare fermi a fissare un punto che credono degno della massima attenzione, con gli occhi sbarrati, in una meraviglia che sconfina nel terrore, o nell'inespressività dei ciechi. Sono immobili, i paranoici, nel loro stare al mondo sbalorditi – e un attimo dopo schiumano di una rabbia frenetica.


Forse esistono, i paranoici. Ma la paranoia no: è una parola, un concetto, un modo di – non – essere al mondo che ormai ha lasciato spazio ad altre parole, ad altri concetti, ad altri disturbi. Non deve più combattere con la normalità ed il buon senso, perché buon senso e normalità hanno altro a cui pensare. “Paranoia” è innanzitutto una parola e come tutte le parole è anche uno strumento con cui graffiare il mondo, oltre che essere parte di esso: la sua origine è greca, è figlia dell'unione di para (oltre) e nous (mente, intelletto) e vorrebbe indicare una follia che non è la manìa, di cui sono vittime le seguaci di Dioniso, ma un andare-oltre che non ha nulla di sacro, di conturbante. Viene presa poco sul serio, la paranoia, la cui figura esemplare è forse Cassandra – Alessandra, per i greci –, la figlia di Priamo che profetizza la fine tragica di Troia, inascoltata. “Sei una Cassandra” si dice, da allora, a chi annuncia il vero – lo vede in faccia e riesce, con uno sforzo sovrumano, a metterlo in parole – ma non viene ascoltato; eppure dovremmo renderci conto, se davvero abbiamo letto Omero col dovuto rispetto, che nel dare a qualcuno l'appellativo di “Cassandra”, diveniamo corresponsabili della verità delle sue parole, cariche di destino: stiamo annunciando la nostra fine. Ma la paranoia non esiste ed i paranoici – se esistono – annunciano una verità a scoppio ritardato. C'è poco da prendersela con i profeti: quelli veri, non fanno altro che leggere i segni, già tutti presenti, di un oggi che ha bisogno delle loro attente parole, del loro intelletto ulteriore, per assumere la fisionomia di un futuro inevitabile. I profeti, scrupolosi paranoici, abitano tale sfasatura temporale: né presente né futuro – semmai, un impercettibile oscillare tra un oggi sfuggente ed un domani indefinito. Scrive il filosofo Giorgio Agamben, commentando Nietzsche, che «è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente [col proprio tempo] né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo. […] La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce ad esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l'epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.» (G. Agamben, Che cos'è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008, pp. 8-10).

In Italia, per poco più di cinquant'anni, ha vissuto – ha consumato il proprio tempo, verrebbe da dire, vista la foga poetica del suo vivere – un profeta che non voleva essere tale. Come Cassandra, ha cercato in tutti i modi di condividere, con amici e compagnie occasionali, la gioia e la tristezza del proprio essere loro contemporaneo: Pier Paolo Pasolini – nome e cognome della nostra sacerdotessa – morì estraneo ad un Paese che oggi lo cita con rispetto e ripete pappagallescamente ciò che lui scrisse e disse, quando ciò che eravamo diventati era troppo sotto i nostri occhi per essere visto senza sforzo, senza sofferenza, senza poesia ed immaginazione. Il 14 novembre del 1974 pubblicò un articolo sul “Corriere della Sera” per parlare in prima persona al proprio tempo, ai propri contemporanei: “Io so”, ripeteva come un mantra, come una formula sacrale, in quell'articolo; Pier Paolo Pasolini sapeva i nomi delle trame “oscure” – così le si voleva rappresentare, per non sentirsi responsabili – che stavano straziando le vite di alcuni e la vita politica di un intero Paese da cinque anni; li sapeva, quei nomi, ma non poteva dirli, perché non aveva le prove. Egli sapeva perché era un intellettuale – una “Cassandra”, diremmo noi – «che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentati di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.» (P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2009 [1975], p. 89). Il dentro-fuori temporale che ogni Cassandra abita trova un analogo nel suo essere dentro-fuori ciò che deve dire: sa una verità che non può affermare, perché per farlo dovrebbe avere le prove che possiede solo chi – i giornalisti, i politici del Palazzo – è troppo compromesso col Potere per denunciarne la natura in modo credibile, senza passare per opportunista, traditore, arrivista. Eccolo, il paradosso di Cassandra: sapere proprio in quanto non si hanno le prove per sostenere davanti agli altri ciò che si sa – conoscere la verità proprio perché non la si può dire. Non è forse paranoia, tutto ciò? Ma la paranoia non esiste. Esistono, forse, i paranoici.
Fa un buon uso della paranoia chi accetta il rischio di dire-il-tutto, di dire-il-vero (la pratica che i greci chiamavano parrēsia), in un'epoca che ha escluso la possibilità di avere a che fare con l'Intero, di esercitare uno sguardo complesso sul reale, che non si accontenti di trastullarsi con i frammenti e voglia immaginare ciò che non riesce ad avere – le prove, nell'articolo di Pasolini; e pretenda di immaginare l'esistenza di qualcosa che stia oltre l'orizzonte che il suo limitato guardare gli regala. Non è forse la paranoia un intelletto ulteriore? Non è, questa, una forma di immaginazione radicale? È bene fare buon uso anche – se non soprattutto – di ciò che non esiste.


M.P.


Da leggere     G. Agamben, Che cos'è il contemporaneo?, Nottetempo, Roma 2008
                     P.P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 2009
Da ascoltare    Bugo, Sguardo contemporaneo, Universal 2006
Da vedere       H. Ashby, Oltre il giardino (Being There), 1979
Da bere           ... meglio di no