cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 12 maggio 2012

He’s lost control

Someone take these dreams away / That point me to another day / A duel of personalities / That stretch all true realities [Dead Souls]

La prima volta che ho guardato su YouTube un video dei Joy Division, la figura di Ian Curtis mi colpì in modo impressionante, quasi doloroso. Mi ricordo che pensai: “Ma chi è questo? E perché si muove in quella maniera? Non sembra neanche  umano”. Si perché quel ragazzo pallido e magro più che una persona in carne ed ossa, mi parve una figura evanescente, quasi uno spettro emerso da chissà quale luogo per cantare, con voce bassa e malinconica, canzoni cariche di immagini visionarie.

I Joy Division nascono intorno alla metà degli anni ‘70, formati da Bernard Sumner (chitarra), Terry Mason (batteria, poi sostituito da Tony Tabac) e Peter Hook (basso), ai quali si aggiunge poco dopo il giovane Ian Curtis. Inizialmente il gruppo si chiama Warsaw, in onore di una canzone di David Bowie, ma vista l’esistenza di un altro gruppo con un nome simile, diventano i Joy Division.



A suggerire tale nome è lan che lo riprende da un libro, The House Of Dolls, su un gruppo di detenute ebree trattate come schiave sessuali in un lager nazista, e la cui lettura lo aveva particolarmente colpito. Un nome che non ispira certo allegria, ma destinato a rimanere impresso per sempre. I Joy Division danno vita a qualcosa che mai prima si era udito, qualcosa che mai nessuno riuscirà a riproporre. E su tutto spicca lui, Ian Curtis.

Ian Kevin Curtis è un ragazzo particolare, introverso e malinconico che passa l’adolescenza - a Manchester, dov’è nato nel 1956 - a divorare un libro dietro l’altro: i romanzi di Conrad, di J. G. Ballard, di W. Burroughs, ma anche le poesie di Rimbaud, Verlaine e di tutti gli altri poeti maledetti. Ian ama le parole più di ogni altra cosa al mondo, ecco perché fin da piccolo ha come massima aspirazione quella di fare il poeta. Ma gli anni a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80 sono anni importanti per la musica: il punk è finalmente emerso con tutta la sua violenza grazie ai Sex Pistols e ai Clash, così come Ziggy Sturdust - ormai trasformato nell’etereo Duca Bianco -  è signore incontrastato delle classifiche.

La voglia di suonare e di farsi ascoltare attraverso la musica in quegli anni è forte, e questa voglia ce l’ha anche il giovane Curtis, che si presenta così all’annuncio che Sumner, Mason e Hook avevano messo per trovare un cantante da inserire nel loro gruppo.
I quattro iniziano a suonare, l’alchimia c’è, eccome se c’è: nel 1979 esce il loro primo album Unknown Pleasures. La musica è disperata, elettrica, nervosa, i testi - frutto del genio decadente di Ian - parlano di rabbia, frustrazione, insoddisfazione, disagio. Un disagio che è intrinseco nella natura di Ian, e che a poco a poco si trasforma in depressione, forse alienazione.

Un mondo, quello dentro alla testa di Curtis, che il cantante ha bisogno di esprimere attraverso le parole dei suoi testi, con i quali cerca di esorcizzare le sue paure più profonde. Ma ad un certo punto questo non è più sufficiente: Ian è un ragazzo sensibile, troppo sensibile. Sensibilità dello spirito, e sensibilità del corpo. Si perché egli soffre anche di epilessia fotosensibile, una malattia che lo rende particolarmente esposto agli stimoli visivi e alla luce, e quindi cerca di evitarli vivendo il più possibile all’ombra. Tutto è ombra intorno e dentro Ian.

Anche la sua vita privata non è delle più serene: si sposa con Deborah Woodruff nel 1975, entrambi sono appena diciannovenni. La loro unione ha breve durata: poco dopo la nascita della loro unica figlia, nel 1979, i due si lasciano. Un fallimento, quello matrimoniale, che contribuisce a segnare la sensibilità già disperata di Ian, come si può ben intravedere  nel brano Love Will Tear Us Apart.

Il 18 maggio del 1980 nella casa di Ian non si sente nessun rumore, tranne quello di un vinile che gira a vuoto sul piatto. Si tratta dell’album The Idiot di Iggy Pop, il disco è finito da un bel pò, ma continua a girare perché nessuno l’ha tolto dal piatto. Ian non poteva farlo, si perché quella notte aveva deciso di legarsi una corda al collo e di farla finita. Non aveva ancora compiuto 24 anni.

Figura tragica quella di Ian Curtis, in cui alienazione e poesia, si mescolano a tal punto che non è possibile distinguere l’una dall’altra.


D.C.




Visione consigliata: Control (2008) di A. Corbijn

Alda Merini e le ombre della mente

Sono nata il ventuno a primavera/ ma non sapevo che nascere folle,/ aprire le zolle/ potesse scatenar tempesta [...]

Alda Merini nasce a Milano il 21 marzo del 1931 e a solo 18 anni, nel 1947, fa la conoscenza di nomi come Manganelli, Spagnoletti, Maria Corti, che leggono le sue poesie e che la incoraggiano a proseguire nel suo impegno letterario.
Nello stesso anno però si manifestano apertamente nella poetessa i primi fantasmi della mente, così angosciosi e debilitanti da farle perdere il contatto con la realtà, tanto che verrà internata, una prima volta per un mese, a Villa Turro a Milano.

Ma l’esperienza del manicomio si ripeterà ancora e dal 1956 al 1972 sarà la volta del Paolo Pini, sempre a Milano.
A causa della malattia Alda si rinchiude in un silenzio poetico che durerà quasi vent’anni che si interromperà nel 1979 quando, soprattutto in La terra Santa, darà avvio alla rielaborazione della sua esperienza.

“Io sono certa che nulla più soffocherà la mia rima,/ il silenzio l’ho tenuto chiuso per anni nella gola/ come una trappola da sacrificio,/ è quindi venuto il momento di cantare/ una esequie al passato”.

Ma sarà L’altra verità. Diario di una diversa a catturare una volta per tutte, imprimendo nella pagina scritta della prosa, quello che ha significato per la Merini l’internamento.
Giorgio Manganelli nella prefazione allo stesso Diario, scrive che esso “Non è un documento, né una testimonianza sui dieci anni trascorsi dalla scrittrice in manicomio. E’ una ricognizione, per epifanie, deliri, nenie, canzoni, disvelamenti e apparizioni di uno spazio-non un luogo- in cui, venendo meno ogni consuetudine e accortezza quotidiana, irrompe il naturale inferno e il naturale numinoso dell’essere umano [...]”.




Infatti con estrema semplicità la Merini racconta dei compagni di “detenzione”, uomini e donne dalla grande umanità e sensibilità, spesso presenti lì in manicomio per errore o per il disinteresse della famiglia; dal Diario emergono però anche gli aspetti brutali e quasi “bestiali” di questi personaggi che, a causa delle medicine e dei trattamenti violenti sembrano diventare degli animali ed essere trattati come tali. Ciò che maggiormente spaventa e stupisce però è la descrizione del personale medico ed infermieristico che tranne poche eccezioni non si risparmia dall’utilizzare terapie e medicinali pericolosi per i pazienti, quasi appunto non fossero vere e proprie persone quelle internate, ma cavie da sottoporre a esperimenti di varia natura.

Ancora Manganelli conclude la sua prefazione dicendo che “Grazie alla parola, chi ha scritto queste pagine non è mai stata sopraffatta, ed anzi non è mai stata esclusa dal colloquio con ciò che apparentemente è muto e sordo e cieco.”

Alda Merini infatti è riuscita a riacquistare parte della sua sicurezza e delle sue capacità proprio grazie alla parola e alla poesia, così forte e potente da vincere la malattia.

G.D.C.


Letture consigliate:

L’altra verità. Diario di una diversa (prima edizione Scheiwiller 1986, nuova edizione Rizzoli 1997);

Vuoto d’amore, 1991, Einaudi

Vincent Van Gogh: Le Fou Rouge

“Cosa sono io agli occhi della gran parte della gente? Una nullità, un uomo eccentrico o sgradevole, in breve, l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero cosa c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno.”

Nel 1882 Vincent scriveva questa lettera al fratello Theo forse l’unico che riuscì a capire e amare davvero l’artista che c’era dietro quell’uomo apparentemente istintivo, dai sentimenti forti e violenti.

Pochi giorni fa ho finito di leggere l’ultimo romanzo di Giovanni Montanaro, Tutti i colori del mondo nel quale lo scrittore dipinge il percorso di Van Gogh dagli inizi, dai primi schizzi, fino all’esplosione di colori che caratterizza il periodo più fertile del pittore. Questa trasformazione è vista dagli occhi di una ragazza, Teresa Senzasogni, la quale divide con Vincent i momenti che precedono il “miracolo che lo ha trasformato in un pittore, senza accademie né maestri.”


Vincent Van Gogh nasce a Groot Zundert, Olanda, nel marzo del 1853. Diviene dapprima commesso in una libreria di paese, in seguito tenta di seguire le orme del padre come predicatore, trasferendosi in un piccolo paese di minatori belga – e condividendo con loro per diversi mesi la vita in miniera.
Dopo aver trascorso un periodo in solitudine, matura l’idea di diventare pittore e nel 1880 si reca a Bruxelles, dove si iscrive all’Accademia delle Belle Arti.
Sono di questo periodo le prime crisi di nervi: la difficoltà nel trovare un modo di esprimere la propria interiorità, la certezza di essere incompreso, fanno precipitare l’artista in una profonda depressione, che diventa in seguito una sorta di alienazione mentale; crisi che gli fa completamente perdere ogni contatto con la realtà.

Fortunatamente a questi periodi bui sono intervallati momenti felici e spensierati nei quali l’artista dipinge incessantemente da mattina a sera.
In uno dei primi capolavori I mangiatori di patate, datato 1885, Vincent riesce a mettere a nudo la miseria, la povertà di alcuni contadini durante la cena serale. I volti nodosi e segnati dal lungo lavoro durante la giornata sono appena illuminati da una tenue luce a petrolio.
“...ritengo sia errato dare ad un quadro di contadini una sorta di superficie liscia e convenzionale...se un quadro di contadini sa di pancetta, fumo, vapori che si levano dalle patate bollenti – va bene, non è malsano...”

Queste brevi righe, parte di una lettera scritta al fratello, rivelano un Van Gogh compassionevole e disposto a trattare di temi sociali, così come anni prima aveva condiviso lui stesso le fatiche e la sorte dei minatori.


Anno spartiacque è il 1886: l’anno del trasferimento a Parigi, l’incontro con i divisionisti e gli impressionisti, l’anno in cui Gauguin e Van Gogh vanno a vivere assieme nella casa gialla di Arles.
Sono di questi anni i più famigerati “Autoritratti”, nei quali, accostamenti di colori complementari in filamenti lo riconducono alla scuola divisionista di Seurat. Gli occhi persi all’orizzonte, le labbra strette, la secchezza del volto fanno trasparire l’ormai evidente carattere instabile e malato, dato da ritmi e regimi di vita forsennati; cose che vengono leggermente mitigate dall’amico Gauguin la cui pulizia e meticolosità arrivano a disciplinare, almeno in parte, l’autentico caos in cui l’amico vive.
I due passano le giornate a dipingere in mezzo ai campi, nelle vigne e nelle colline, en plein air, e le serate a discutere, a influenzarsi in lunghe discussioni.
Ma la diversità di caratteri non tarda a manifestarsi: i rapporti tra i due artisti diventano sempre più tesi; Van Gogh teme di perdere l’amico, è angosciato dall’idea di rimanere ancora solo, diviene geloso, possessivo e irritabile.
Quando Paul lo ritrae intento a dipingere i girasoli, Van Gogh ha una reazione estremamente ostile: rimane sconvolto nel vedere i segni fisici del suo squilibrio mentale evidenziati con tale precisione, si convince che l’amico l’abbia ritratto in quel modo per umiliarlo, dargli una lezione. È la goccia che fa traboccare il vaso: la notte di natale del 1888 Gaguin prepara i bagagli, ma quando Vincent lo vede tenta di fermarlo aggredendolo con un rasoio. La stessa notte l’artista, con un gesto di pura follia autolesionista, si taglia il lobo dell’orecchio sinistro e lo fa recapitare ad una prostituta che era solito frequentare con l’amico.

Pochi mesi dopo Vincent si rende conto che i segni della malattia mentale lo rendono ormai incapace di gestire la propria vita, nel maggio del 1889 entra volontariamente nella casa di cura di Saint-Remy dove però continua a dipingere.
È di questo periodo uno dei suoi ultimi capolavori: “Campo di grano con volo di corvi” (1890). Nel quadro, di una luminosità straordinaria, un mare giallo di grano si cuce all’azzurro del cielo ormai coperto di nubi nere frastagliate di corvi neri. Questa luminosità presto sarà vinta dall’incombere della tempesta, proprio come l’artista poco dopo troverà la morte in un campo di grano, stroncato dalla disperazione, dalla rabbia e dalla solitudine che solo tramite la sua pittura riusciva a trasmettere.



“(…) L’amore fa sempre folli, Signor Van Gogh, quelli a cui non importa niente vivere non diventano mai pazzi.” (Tutti i colori del mondo, Giovanni Montanaro, Feltrinelli, 2012)

A.L.




Lettura consigliata: Tutti i colori del mondo, Giovanni Montanaro, Feltrinelli, 2012

Visione consigliata: Van Gogh (1999) di M. Pialat

Tutti pazzi per Mc Murphy

Alla cerimonia di consegna dei premi Oscar® del 1976 la concorrenza è agguerrita. A contendersi le statuette più ambite del pianeta saranno film destinati a diventare dei must per cinefili e non solo; si va da Qualcuno volò sul nido del cuculo di Milos Forman, a Lo squalo di Steven Spielberg, passando per Barry Lyndon di Stanley Kubrik e Quel pomeriggio di un giorno da cani di Sidney Lumet.

La statuetta più prestigiosa, quella per il miglior film, la porta a casa Qualcuno volò sul nido del cuculo, alla quale si aggiungeranno quelle per il miglior attore protagonista (Jack Nicholson), migliore attrice protagonista (Louise Fletcher), miglior regia (Milos Forman), miglior sceneggiatura non originale (Lawrence Hauben e Bo Goldman).

Tutto ha inizio nel 1962, quando lo scrittore americano Ken Kesey pubblica un romanzo dal titolo curioso, tratto da una filastrocca popolare: One flew over the cuckoo’s nest. Il romanzo trae ispirazione dall’esperienza diretta dell’autore in una clinica di pazienti con disturbi mentali, portando alla luce i metodi rigidi e in alcuni casi poco ortodossi utilizzati nella cura dei pazienti. Tra i numerosi lettori e ammiratori del romanzo vi è anche Kirk Douglas, che decide immediatamente di acquisire i diritti per la riproduzione cinematografica del libro. Inizialmente proposta come rappresentazione teatrale (con lo stesso Kirk Douglas come attore principale), la produzione cinematografica viene affidata a Michael Douglas, il quale insieme al padre individua in Milos Forman il regista giusto.

La vicenda si svolge all’interno di un ospedale psichiatrico. Randall P. Mc Murphy vi è appena giunto direttamente dal penitenziario, per accertamenti sul fatto che la sua pazzia non sia in realtà altro che un espediente escogitato per eludere i lavori forzati. Randall porta nella clinica scompiglio alla routine giornaliera (e notturna) impostata con estrema rigidità dall’inflessibile Miss Ratched, classico stereotipo di infermiera che tutto prestabilisce seguendo pedissequamente la deontologia professionale. Ma per fermare Mc Murphy ci vuole altro, nessuno ha mai messo paletti nella sua vita scapestrata e non sarà di certo la signorina Ratched a mettere in riga il ragazzo. La guerra tra i due è inevitabile, e Randall mettendo in campo la sua furbizia otterrà presto delle piccole vittorie. I “matti” sono con lui, e nemmeno il veto di Miss Ratched a guardare le finali di baseball può impedire a Mc Murphy di trascinare i compagni in un tifo sfrenato davanti ad un televisore spento. Randall diventa così il punto di riferimento degli ospiti dell’istituto, e la sua visione anarchica delle cose prenderà subito il sopravvento.



Qualcuno volò sul nido del cuculo è un film diretto, che ha il pregio di abbinare alla drammaticità della denuncia sociale (vedi i metodi utilizzati per “calmare” Cheswick e lo stesso Mc Murphy) una formidabile ironia (uno su tutti il personaggio di Martini interpretato da Danny De Vito), che ben si adatta a rendere il film scorrevole e accessibile a tutti nonostante la tematica impegnata. Jack Nicholson interpreta per la prima volta una parte che diventerà il suo cavallo di battaglia, quella del (finto) deviato mentale, a cui seguirà nel 1980 in Shining l’interpretazione di Jack Torrence, scrittore in cerca di ispirazione che impazzisce (questa volta veramente) in un albergo deserto e isolato.

È un film che apre molte finestre e cerca di chiuderne altre. E alla fine qualcuno potrà finalmente spiccare il volo.

M.F.



Visione consigliata:Qualcuno volò sul nido del cuculo (1975) di M.Forman

Shining (1980) di S.Kubrick

Lettura consigliata: Qualcuno volò sul nido del cuculo (1962) di K.Kesey

“Il serpente gli scivolò nello stomaco”: dal 1978 al 2013

Gorizia, 1962. Il medico Franco Basaglia entra in contatto con l’ospedale psichiatrico della città, con un manicomio. L’impatto si rivela penetrante, prepotente e poco tempo dopo, in Basaglia, ribolle il fuoco della rivoluzione: rifiuto delle forme di contenzione fisica, dell’elettroshock, apertura dei manicomi agli altri reparti ospedalieri, ai rapporti umani, al personale, al riconoscimento dei diritti e della necessità di una vita di qualità.


In Che cos’è la psichiatria del 1967, egli scrive:
«La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’ essere».

La battaglia di Franco Basaglia portò alla stipula della legge n. 180, la legge del 13 maggio 1978 che sancì la chiusura dei manicomi. La sofferenza mentale del paziente venne finalmente riconosciuta, non rimossa; si decise che il malato doveva essere curato in una comunità terapeutica così da poter poi essere reinserito nella società, non internato perchè considerato pericoloso.
Fino a quel momento i manicomi erano funzionati anche come delle vere e proprie carceri per persone socialmente scomode, diverse; partendo dalla devianza era possibile controllare, contenere. Contenere individui scomodi e diversi, solo determinati individui, perchè omosessuali, diversamente abili, eccessivamente attivi, individui che parlavano troppo, che facevano rumore. Mi viene in mente quel film di Clint Eastwood, Changeling, film tratto da una storia vera accaduta a Los Angeles nel 1928, in cui la protagonista C.Collins, interpretata da una commovente Angelina Jolie, venne internata per essersi troppo rumorosamente battuta riguardo alla sparizione del suo unico figlio Walter.

Per il fatto che le Regioni del nostro Paese, che le famiglie dei malati, che l’Italia stessa non era pronta a tale provvedimento, ancora oggi alcuni parlano di “fallimento della legge Basaglia”; ed esempio, molti dei malati che si erano ritrovati con le spalle scoperte in famiglia sarebbero finiti per strada a fare i barboni. Tra questi, con gli innocui, vi sarebbero stati anche i più aggressivi e pericolosi.
Oggi, a quasi 35 anni dall’aver compiuto quello che comunque io considero un grandissimo passo avanti in materia di diritti umani, si pone il “problema” degli OPG, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. In Italia ne esistono sei e si trovano nelle Regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Sicilia; questi, dalla metà degli anni Settanta, hanno sostituito i manicomi criminali e, in base al decreto “svuota carceri” approvato dal Senato a gennaio di quest’anno, dovranno definitivamente essere chiusi entro il 31 marzo 2013.



La dimensione detentiva, quasi carceraria, ha sempre prevalso in questi istituti per i quali finalmente ne è stata proposta una curativa. Questi manicomi, popolati da coloro che talvolta sono stati trattati come dei “rifiuti umani e sociali”, verranno sostituiti da luoghi che  assumeranno un carattere più strettamente ospedaliero e che si affideranno alla sanità regionale.
Anche riguardo a quest’ ultima delibera, però, sono emerse molte perplessità: vi si vede il rischio di riesumare delle strutture manicomiali territoriali, di caricare le Regioni di un ruolo che non sarebbero in grado di gestire, poichè ne mancherebbero le condizioni, di pesare ulteriormente sulle famiglie dei malati; al momento pare che gli italiani non possano far altro che aspettare.
Nel suo volume del 1967, Corpo e istituzione, Franco Basaglia si rifà ad una “favola” che riesce a sottolineare in modo efficace la “condizione istituzionale del malato mentale”, come l’istituzione manicomiale si insinui nell’ intimo dell’animo umano e piano piano lo distrugga, lo faccia proprio. Egli scrive:
«Una favola orientale racconta di un uomo cui strisciò in bocca, mentre dormiva, un serpente. Il serpente gli scivolò nello stomaco e vi si stabilì e di là impose all’uomo la sua volontà, così da privarlo della libertà. L’uomo era alla mercé del serpente: non apparteneva più a se stesso. Finché un mattino l’uomo sentì che il serpente se n’era andato e lui era di nuovo libero. Ma allora si accorse di non saper cosa fare della sua libertà: “nel lungo periodo del dominio assoluto del serpente egli si era talmente abituato a sottomettere la sua propria volontà alla volontà di questo, i suoi propri desideri ai desideri di questo, i suoi propri impulsi agli impulsi di questo che aveva perso la capacità di desiderare, di tendere a qualcosa, di agire autonomamente. In luogo della libertà aveva trovato il vuoto, perché la sua nuova essenza acquistata nella cattività se ne era andata insieme col serpente, e a lui non restava che riconquistare a poco a poco il precedente contenuto umano della sua vita”».
Credo che ciò che manca e che soprattutto sia mancato a queste persone sia la libertà di poter vivere la propria esistenza così come è dato loro di vedere il mondo. Qualsiasi strada verrà presa in questa occasione mi auguro che noi “normali”, al momento giusto, ci ricorderemo di essere tali solo perchè baciati dalla fortuna.


S.T.




Visione consigliata:             Changeling (2008) di C. Eastwood


venerdì 11 maggio 2012

Laboratorio di Giornalismo tenuto da Il Pentagramma Magazine





Questa sera, Mercoledì 16 Maggio 2012,
serata conclusiva del laboratorio di giornalismo tenuta da
Il Pentagramma Magazine a cura di Progetto Giovani Rossano 

ore 20.00 presso Villa Aldina, Via Roma, 153 Rossano Veneto

mercoledì 2 maggio 2012

Teaser V° numero "La Follia" in uscita il 12 maggio 2012



...
-dottor Franco, si è tagliato un orecchio!!
-ma è stato lui o è stata lei??
-forse è stata Alda! She lost control, again...
-chiama il lupo cattivo!
...

con la partecipazione speciale di Giovanni De Agnoi per le illustrazioni