cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

sabato 25 maggio 2013

The disappearing frame



Ogni parola è una cornice


There’s more to the picture
than meets the eye
Hey hey, my my
N. Young, My My, Hey Hey (Out Of The Blue)


Ogni parola è una cornice, a quanto pare. A voler essere più precisi: ogni tentativo di dire qualcosa, di comunicare – a se stessi o agli altri – un pensiero, un sentimento, un proposito; ogni frammento di linguaggio che, più o meno articolato, più o meno efficace, voglia descrivere un pezzo di mondo, fa qualcosa di tanto invisibile quanto essenziale: riconferma un orizzonte entro il quale quelle parole hanno senso per qualcuno. Difficilmente lo sposta, lo restringe, lo allarga. Diventare consapevoli di ciò è la via maestra per comprendere che come diciamo qualcosa è parte stessa di cosa stiamo dicendo: tratti apparentemente accidentali in comunicazioni sedicenti neutre, come il tono, il vocabolario utilizzato e – ancora di più – la combinazione delle parole, sono tutti elementi decisivi, che lo si sappia o meno; che lo si voglia o meno. Nulla di straordinario, si dirà: chiunque abbia avuto a che fare con se stesso o con altri essere umani per qualche tempo, ha vissuto esperienze più o meno traumatiche, legate al carattere eccedente di ogni discorso, al suo essere semplicemente quello che è – un insieme di parole, di segni sulla carta, di suoni – e al tempo stesso mostrare qualcosa che nessuna parola potrà spiegare, perché sarebbe una chiosa inutile o ridondante, un arrivare in ritardo ad un appuntamento decisivo. L’ha cantato bene Neil Young: «C’è più nell’immagine / di quando l’occhio possa vedere»; e se ogni parola è una cornice, una cornice che quando viene vista scompare, allora quel di più, quell’eccedenza, sarà il segno di una sconfitta inevitabile: chi voglia togliere la cornice, vedrà sbriciolarsi il dipinto tra le mani. Eppure, non possiamo fare a meno di dimenticarci di questa ovvietà, per gran parte della nostra esistenza.

Di tale, preziosa intuizione si è servito, in anni recenti, un linguista statunitense, George Lakoff, attento studioso del ruolo della metafora nella vita quotidiana di ognuno – quindi, del carattere poetico di ogni linguaggio, scientifico o ordinario che sia. Lakoff parla di “cornice” (frame) per indicare quello che noi abbiamo sommariamente indicato come orizzonte di senso e che, dal punto di vista delle sue applicazioni ed implicazioni politiche, risulta essere il vero campo di battaglia di ogni discorso che voglia convincere. Elettore e sostenitore del Partito Democratico, Lakoff vide il progressivo – e tutt’altro che progressista – piegarsi della retorica liberal alle parole d’ordine dei repubblicani, in particolare in occasione della campagna elettorale che portò al secondo mandato di George W. Bush, vittorioso sul democratico Kerry. Lo sconcerto e la preoccupazione di Lakoff furono grandi, non tanto – non solo – per la seconda affermazione del Presidente che aveva voluto gli interventi militari in Afghanistan e Iraq, infiammandoli con la benzina del fanatismo religioso delle sette protestanti americane; ciò che più preoccupava Lakoff, scienziato del linguaggio e cittadino, era la conquista, da parte dei repubblicani, del frame, della cornice di senso entro cui ogni discorso avrebbe dovuto inserirsi per essere anche solo ritenuto legittimo dalla comunità politica: una volta imposto il proprio frame come codice di riferimento per il dibattito pubblico, un movimento (politico, religioso, etc.) ha di fatto posto le basi per una facile vittoria, perché anche il discorso che voglia porsi come radicalmente alternativo, dovrà usare le sue parole – il suo tono, le sue metafore – per essere ascoltato. Riconfermando, con ciò, il discorso del vincitore. È quanto accadde, a detta di Lakoff, alla parola “libertà”, tanto cara all’immaginario statunitense: una parola complicata, che si dice in molti modi e viene usata da persone con convinzioni e atteggiamenti molto diversi, prestandosi allo scontro retorico per la supremazia “di sfondo”. Chi riesca a persuadere la società civile della bontà del proprio concetto di libertà, avrà vita facile a condurre i giochi politici e a mostrare il carattere “illiberale” dell’avversario. Questi, da parte sua, nell’immediato potrà solo cercare di limitare i danni e cominciare un lungo lavoro contro-culturale, per provare a cambiare cornice – e a dipingere, quindi, uno scenario differente. Sì, perché è vero che il carattere inapparente del frame, il suo scomparire nelle parole che incornicia, lo rende difficile da riconoscere e quindi quasi inattaccabile; eppure, in quel “quasi” c’è molto: c’è il logorarsi delle parole che pensavamo eterne, c’è lo slittamento semantico, il mutar di senso di vocaboli e concetti, dal momento che questi sono pur sempre parte di una forma di vita, di scontri e incontri, condizioni economiche e sociali, bisogni e desideri privati o pubblici (sempre di più: privati e pubblici). Ogni cornice, anche la più bella, anche la meno visibile, può presentare alla lunga delle crepe.

Incontrandoti per strada, ascoltando una canzone, mangiando con le mani, ripensando al tempo trascorso e accorgendomi che le cose non erano andate esattamente così come avevo pensato fino al giorno prima, ascoltandoti o lasciandomi guidare da un’esitazione dello sguardo, posso anche rinunciare a convinzioni che, all’improvviso, mi sembrano di comodo, accettate per abitudine o per paura. Sembra dirci questo, George Lakoff. 
Sembra cantare questo, Neil Young.

Hey hey, my my.


M.P.



Da leggere            George Lakoff, Don’t Think Of An Elephant! (2004) (tr. it. di B. Tortorella, Non pensare all’elefante!, Fusi Orari, Roma 2006)
                                George Lakoff, Whose Freedom? The Battle Over America’s Most Important Idea (2006) (tr it. di V. Roncarolo, La libertà di chi?, Codice edizioni, Torino 2008)
Da ascoltare          Neil Young, My My, Hey Hey (Out Of The Blue), da Rust Never Sleeps (1979)
Da vedere             Hal Ashby, Harold e Maude (USA, 1971)

Come pietra paziente



Dentro la cornice


Come pietra paziente è un film diretto da Atiq Rahimi e tratto dal romanzo Pietra di pazienza dello stesso Rahimi, pubblicato in Italia da Einaudi.
Il film è ambientato in Afghanistan, in uno scenario esterno di violenza, bombardamenti e follia.
Ma sono poche le scene che mostrano la guerra “da fuori” o che si soffermano sulla città distrutta perché fin dall’inizio appare chiaro che il dove e il quando sono un elemento accessorio, sono come una cornice, potrebbero benissimo non esserci. 


Non a caso la maggior parte del film è girato all’interno di una stanza, dove la protagonista, l’attrice Golishifteh Farahani, deve accudire suo marito, un eroe di guerra ora in coma.  Spesso la macchina da presa indugia sui primi piani, cattura gli sguardi, le voci di una donna che inizia un percorso di scoperta di sé attraverso le parole.
Infatti l’attrice - che tra l’altro nel film non ha nome, come se rappresentasse non una donna ma tutte le donne - inizia a confessare al marito, incosciente e alimentato tramite una flebo, particolari della propria vita che mai avrebbe pensato di poter rivelare.
Il marito diventa quella che per la tradizione popolare afghana si chiama “synguè sabour”, la pietra paziente, cioè una pietra magica che noi poniamo davanti a noi stessi per sussurrarle tutti i nostri segreti e le nostre sofferenze… finché non va in frantumi.
Il film ha queste due dimensioni, una di cornice e di sofferenza straziante esterna, dove la guerra uccide e non risparmia, un’altra di sofferenza interna, lungo un percorso doloroso di libertà.
Ma possono le parole rendere davvero liberi? È ancora possibile cercare la vita e la sincerità in un mondo di violenza e morte?



Visione consigliata : Come pietra paziente (Synguè Sabour), 2012, diretto da Atiq Rahimi
Lettura consigliata: Atiq Rahimi, Pietra di pazienza, Einaudi, 2009


G.D.C.

Pictures at an exhibition



Una passeggiata tra quadri.

L’idea di Modest Musorgskij, compositore della fine dell’’800, nasce da una passeggiata, una promenade, tra i quadri esposti in un museo.

Alcuni anni prima, l’incontro con l’architetto Viktor Hartmann e l’amicizia che ne scaturisce porta i due a sviluppare una comune visione dell’arte legata ai valori culturali della Russia rendendoli molto uniti e affiatati.

Per la prematura morte di Hartmann, in suo ricordo, viene presentata a San Pietroburgo una mostra che propone 400 opere dell’artista, alcune anche della collezione privata di Musorgskij. È proprio passeggiando tra i corridoi dell’Accademia che il compositore si immagina e scrive i Quadri.
La maggior parte dei lavori che facevano parte della mostra sono andati perduti, rendendo così difficile l’identificazione dei lavori che hanno effettivamente ispirato il pianista. Di sicuro ne fanno parte “L’Ebreo ricco, L’Ebreo povero”, “Gnomus”, “Balletto deipulcini nei loro gusci”, “Progetto per una porta a Kiev - Facciataprincipale”.


Questi alcuni dei 10 quadri che creano la suite musicata dal compositore, tutti intramezzati dal tema centrale, la promenade appunto, con minime variazioni, quasi a sottolineare gli stati d’animo che invadono lo spettatore durante la visione dei lavori di Hartmann. La composizione, di fortissimo impatto avanguardistico per l’epoca (1874 la prima stesura pianistica), contiene fortissimi caratteri sperimentali e per qualche verso anticipatori della musica del novecento.

Cent’anni dopo, 1971, esce la rivisitazione dei Quadri in versione psichedelica-progressive. Pictures at an exhibition, firmata Emerson, Lake & Palmer, un album live, 12 tracce.

L’intento è lo stesso di Musorgskij: una passeggiata in chiave rock-alternativo nei corridoi del museo della composizione classica originale rivisitata e adattata. Come a dire, dopo cent’anni se ancora si ascolta (e si suona) musica classica un motivo c’è. L’atmosfera che i tre creano con gli strumenti elettrici (favoloso il riadattamento “dissacrante” di Keith Emerson della fantastica “the old castle”) è un misto di ritmi incalzanti e martellanti, intervallati da suoni incredibili e ancor più avanguardistici della composizione stessa. 



Come nell’originale, anche nella versione dei tre inglesi i vari Quadri sono intramezzati dalla passeggiata, con le variazioni -dalla solenne e suntuosa, alla tenera ninna nanna- del genio di Keith Emerson, fedelissimo del modular moog in quegli anni di recente creazione. Grazie anche a questo strumento, che possiede varianti timbriche pressoché infinite, credo che i tre siano riusciti a realizzare quel sogno cui forse Musorgskij tendeva: avere una manipolazione totale dei suoni e dei timbri. Suonare un moog (talento permettendo) è come avere una tavolozza di colori con cui dipingere la melodia e i suoni a piacimento, all’interno della cornice musicale.

I tre indubbiamente aggiungono delle sfumature sofisticate e molto curate: Carl Palmer una batteria incalzante, a tratti quasi ossessiva, Greg Lake -già all’epoca rinomato per aver firmato il disco “padre” della musica progressive-avanguardistica “In the court of the Crimson King” appunto con i King Crimson- un basso preciso e voce decisa -favoloso l’intermezzo "the sage" chitarra acustica-; ma Keith Emerson è “l’uomo che fa la differenza”.

Talentuosissimo prima organista, pianista in seguito dà al gruppo il tocco che manca, dalla rigida cornice della musica classica al rock irriverente e “delinquente”. Si presenta con vestitiniattillati dai colori improbabili e sfascia gli strumenti come una vera e propria rock star: il palco è tutto suo.

Cosa ne dite?  Che il caro Musorgskij si stia rivoltando nella tomba ripensando ai Quadri? O che stia sognando pure lui di sfoggiare abiti psichedelici e di dare coltellate al pianoforte?!



Ascolti consigliati:      Modest Musorgskij - Quadri di un’esposizione, 1874
                               Emerson Lake & Palmer - Pictures at an Exhibition, 1971



A.L.

Arte Sella: la natura oltre la cornice



L’arte è davvero natura? E’ una domanda complessa, alla quale non sempre si è risposto in maniera positiva. Arte e natura vivono costantemente un rapporto nato tra insidie ed ostacoli, ma consolidato negli ultimi secoli. Due elementi distinti che crescono legandosi fino a diventare cosa unica, fino alla fine, fino alla decadenza dell’opera d’arte. Come nel Romanticismo, lo spirito dell’essere umano acquista un sentimento fortissimo per il paesaggio in quanto ambiente plasmato dall’uomo.
Installare un’opera d’arte nel contesto naturale, implica un conseguente cambiamento di ordine comportamentale, essendo l’artista in primo luogo lui stesso un essere assolutamente naturale, un intreccio di materia e chimica, mescolate a qualsiasi forma di spiritualità. La natura smette di essere dunque la “cornice” dell’arte e s’ingloba in essa, in quanto quest’ultima deve prima di tutto conoscere le proprietà delle cose per raggiungere la massima espressione. La Land Art ne rappresenta un importante traguardo.
 
Una gita nel cuore della Valsugana, in Val di Sella può meglio chiarire le idee di questa lunga premessa. Ad un’ altitudine di 990 metri, sotto la protezione delle Dolomiti, si trova l’avvincente percorso di “Arte Sella”, forse il più bel parco italiano dedicato alla Land Art.


 

Alla base di questo progetto, nato nel 1986, stava l’intenzione di creare un’associazione per lo sviluppo locale del concetto di arte nella natura. Questo poi ha portato l’allora giovane movimento a diventare un vero e proprio fenomeno internazionale di arte ambientale, dove gli artisti partecipanti sentivano il bisogno di evadere verso un contesto aperto, dileguarsi da uno spazio limitato, verso un vero dialogo con il bosco circostante. Dieci anni più tardi, nel 1996 nasce il percorso “Artenatura”, lungo il sentiero forestale sul versante meridionale del monte Armentera, spostando il punto focale del progetto su Malga Costa, intorno alla quale si instaura un contesto artistico delimitato che propone una visita quasi museale. Arte Sella dunque offre ancora oggi due tipologie di visita differenti, una ad accesso libero attraverso il bosco alla scoperta delle installazioni sul percorso Artenatura; l’altra circoscritta (ma ancora più interessante), accerchiando Malga Costa e ammirando anche in questo caso le ultime novità artistiche.

L’arte dev’essere l’interpretazione che lo spettatore si fa della natura, ed è proprio questo l’obiettivo di Arte Sella. L’artista crea un rapporto sociale assolutamente fondamentale in quest’esperienza, dove scultura e architettura viene dalla vegetazione. La natura è una fonte di conoscenza, dove non solo l’artista, ma ogni organismo attinge la memoria. Un ritorno fondamentale, quasi ancestrale, ai materiali organici, in contrasto con le ultime tendenze dell’arte contemporanea, che spesso e volentieri abusa di materiali innaturali.
In Arte Sella, l’installazione viene inglobata nel paesaggio, perdendo la sua autonomia, perché troppo legata all’organicità degli alberi e della terra. Un legame radicale che porterà ineluttabilmente alla decadenza dell’opera stessa, ma è così che deve essere, perché in natura nulla è eterno ma tutto è ciclico. L’opera esce dunque dalla stabilità del “banale” quadro (la cornice appunto) per intraprendere un ciclo organico, dove la natura diventa incontrastata guida di un nuovo processo creativo. Un percorso biologico, temporaneo, che svuota le opere anche del loro valore per rafforzarne il significato. L’arte ritorna alla purezza originale del suo ruolo rappresentativo.

Addentrandosi in Malga Costa non si può non parlare del monumentale capolavoro di Giuliano Mauri: la “Cattedrale Vegetale”, realizzata nel 2001, è senz’alcun dubbio l’opera più emozionante di tutto il parco. Architettura pura, verticale, architettura vera, quella che con gesti minimali porta la natura a trionfare incontrastata, almeno qui. Come Chateaubriand comparava le foreste alle cattedrali gotiche della Francia, anche qui in Val di Sella si ritorna dopo quasi due secoli a proporre la stessa lettura, che esige umiltà nella riscoperta delle nostre origini.

François Lelong, scava invece nella pietra un cerchio ritmico,lungo il tragitto del sole in un’aurea continua di luminosità. Si passa poi a Chris Drury, “La Stanza nel Cielo”: una microarchitettura che conduce ad un mondo rovesciato, facendo scorrere immagini delle montagne capovolte come una camera oscura. Drury crea un luogo della meditazione, dove ognuno è libero di dedicarsi ai propri sensi. Si ricrea il dialogo tra essere umano e natura sulla base di un linguaggio mistico, sovrannaturale.


Ciò che rende speciale Arte Sella (e la Land Art in generale) è il fatto che si eviti la solita lezione sull’arte, prediligendo invece una lezione comportamentale nell’approccio di ogni singolo visitatore. Quello con la natura è un rapporto vitale, che insegna a riflettere e a meditare.
L’intervento dell’uomo, in particolare nel percorso Artenatura, non è altro che un tramite per legarci alla terra e a tutto ciò che essa implica, in azioni piene di poetica. Interventi minimali, iniezioni isolate, delle quali vengono esaltate le differenze. In definitiva viene plasmata un’immagine ideale del mondo, nel quale l’arte, senza alcuna limitante cornice, caratterizza la nostra civiltà.





M.B