cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

domenica 24 marzo 2013

IL PENTAGRAMMA 13° NUMERO PA/RA/NO/IA

SABATO 13 APRILE
USCIRÀ L'ATTESISSIMO TREDICESIMO NUMERO DEL
PENTAGRAMMA MAGAZINE *PA/RA/NO/IA*




VIDEO A CURA DI Bruno Ferraro

COPERTINA DEL NUOVO NUMERO A CURA DI Simone Ilovetu, AntonioPronostico Collettivomensa, Purè Croquette

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martedì 19 marzo 2013

Sfide a tutte le età

La sfida di un neonato è trovare la mammella della mamma e succhiare il più possibile, sonnecchiare un po', fare un piantino e ritrovarsi nuovamente vicino a quel seno caldo e profumato, pieno di latte tiepido di cui nutrirsi.

Mi ha fatto sorridere pensare a cosa avrei potuto scrivere sul tema di questo XII numero de "Il Pentagramma", perchè scavando nella mia mente per capire di cosa avrei potuto parlare, ho pensato che per ogni età il concetto di "sfida" è veramente diverso.
Come dicono i nostri vecchi, "Ogni cosa per la sua età, cara mia" ed è proprio vero.

Ad un anno la sfida vera è imparare a camminare: non è facile trovare il coraggio di ciondolare da una sedia all'altra, cadere, fare due passi e ricadere ancora, ci vuole una forza d'animo non indifferente!

Alla scuola materna la sfida è allontanarsi dalla mamma, quanti pianti!
E poi, la tua amichetta del cuore ha la bambola "Monster" più bella della tua, anzi, lei ha tutta la collezione e tu invece ne hai ricevuta una a Natale, una al compleanno, ed una perchè facevi tanto pena alla nonna quando le hai detto che la tua amica le aveva tutte e tu solo due.

Poi arrivati alle elementari, come primo mestiere si affronta la scrittura. Ma perchè "A" si scrive "A"? E perchè se scrivo "HA" con l'acca si legge come se fosse scritto "A"? E perchè tutte le parole in dialetto che mi hanno insegnato in questo luogo non le posso usare?!
Pensate che in prima elementare ero talmente fuori dal mondo della lingua italiana che ho dovuto chiedere ad una mia compagna come si scriveva "mas-cio" in italiano! Cioè, per chi non fosse Veneto, "Maiale"! Hahahahaah!!!

Il pasaggio dalle elementari alle medie certo non è semplice, scuola nuova, gente da più paesi, gente modernissima, e poi, i ragazzi di terza!
Quando sei in prima media, guardare i ragazzi di terza mette quasi paura. Ai miei tempi ( e qui la sfida è sentire quanto mi sento vecchia mentre pronuncio queste parole!!!), i  ragazzi di terza viaggiavano con il capelli sempre ben "ingellati", tutta una cresta, motorino, cicca in bocca e via!
Se eri di terza e non avevi ancora il motorino, avevi diritto a sederti dietro in pullman, da specificare che io non l'ho mai fatto perchè al solo pensiero vomito, soffro di mal d'auto da sempre.
Poi a ricreazione i più fighi erano accoppiati ovviamente, e lo scopo di tutta la pausa era stare per mano con l'amata e girare nel cortile della scuola chiacchierando. Vasche e vasche e vasche, solchi nel terreno! Sì, ammetto l'ho fatto anche io.

Poi i primi baci, "..ma tu sai come ci si bacia con la lingua? " Lo devo dire, l'ho comperato più di una volta il "cioè" e ho provato a seguire anche qualche consiglio interessante.
Per esempio:  "Se vuoi che il tuo ragazzo ti baci, metti un burro cacao alla fragola, l'odore della fragola non lo farà resistere! " Oppure i consigli sui reggiseni da comperare quando sei convinta di avere due bombe pazzesche e invece hai solo due ciliegine doloranti che spingono per crescere. Da dire anche che certa gente faceva di quelle domande,  ma quanta confusione c'è nella testa degli adolescenti rispetto alla sessualità? E' davvero un mondo tutto da scoprire.

Un'altra vera sfida sono gli esami, quelli delle superiori, e quello della patente ovviamente.
All'esame di guida avevo la gamba che tremava sulla frizione in un modo pazzesco. Mamma che agitazione!

Poi l'università, il mondo del lavoro, le esperienze nuove, il ragazzo che ti lascia, i nonni che muoiono, l'amico che si sposa, diventi zia, scopri che ti piace fare tutto quello che non stai già facendo.

E la vita intera è una sfida.Ogni giorno, ogni momento.
Sfida significa mettersi in gioco, dare movimento alle proprie gambe, al corpo, alla mente, tirare fuori il coraggio e non avere paura di dimostrarsi sempre come si è. Ma come, ci hanno sempre abituati a farsi vedere bravi, buoni, gentili, accondiscendenti!?

Sfida è esprimersi, fuoriuscire in una società che opprime la personalità, guarire dalle malattie croniche, guarire da malattie definite incurabili, camminare con le vesciche, non mangiare ciò di cui hai fame e sai che sei intollerante e non puoi, non avere paura quando invece ne hai un sacco, arrivare al traguardo che ti sei posto, alzarti dal letto il mattino quando fa freddo e tu sei al calduccio e non ci pensi nemmeno a mettere un piedino fuori.

Ma sfida è anche non agire quando invece di impeto vorresti farlo.
Sfida è mandare giù qualche boccone amaro e sapere che prima o poi la verità verà a galla.


Sfida è sentirsi sicuri di sapere chi si è, essere a contatto con se stessi, conoscersi veramente per capire quali strani meccanisimi si inneschino nella nostra mente e vengano poi esternati attraverso il nostro corpo.

Sfida è volere imparare a fare una cosa che non sei mai riuscito a fare.


L.P.

sabato 16 marzo 2013

La sfida


Raul non poteva credere ai suoi occhi. L’autobus aveva frenato di colpo. Tutti i passeggeri, subendo la forte spinta, sbatterono con le teste sui sedili che avevano di fronte. 
“Ma cosa cazzo succede?” pensò tirando il collo in avanti per vedere se avevano impattato contro qualcosa. Si profilò un’immagine d’altri tempi: due tori, uno bianco e uno nero, si stavano incornando senza risparmiarsi, sembravano davvero incazzati. Proprio nel bel mezzo della strada, i duellanti avevano bloccato il traffico, creando due file interminabili che in lontananza le macchine sembravano degli insetti.
Raul, nel frattempo, era sceso dall’autobus, per godersi più da vicino la sfida tra titani. Ogni volta che le corna si scontravano, l’urto creava un boato secco, come quello di un fulmine ma meno ridondante, senza nessun riverbero, come una roccia che dopo un lungo volo nel dirupo va a sbattere frantumandosi in mille pezzi su una pietra più grande. 


Attorno dei ragazzini seguivano estasiati il combattimento, gridando, tifando chi per l’uno, chi per l’altro, tanto che senza accorgersene il gruppetto di giovincelli si era diviso precisamente a metà: una parte faceva il tifo per il toro nero, l’altra per il bianco.
Quando le corna impattavano, tutta la muscolatura del toro, in una tensione incredibile verso terra spingeva, come la forza di un uragano,e il terreno tremava. Nessun dei due mollava, nessuno dei due retrocedeva, le grandi teste, appoggiate l’una all’altra, sembravano il perno di una giostra a due braccia che ruotava: mentre urtavano, i corpi, il bianco candore e la buia tenebra, creavano con le zampe posteriori la circonferenza di un cerchio sulla polvere della strada.
Nella terra dove i tori sono sacri, quella sfida durò alcuni minuti, ma sembrarono un’eternità: dopo che i due tori, stanchi di tutti gli sguardi increduli, avevano deciso di finirla lasciandosi, il bianco da una parte, il nero dall’altra della strada, anche la polvere che si era alzata nell’aria svanì, e soltanto allora si vide il cerchio, come tatuato per terra, nella sua perfetta bellezza. 


A.B.

sabato 2 marzo 2013

La Sfida Inutile


Una lettura infedele de Il Duello, di Joseph Conrad
We got up early,
washed our faces,
walked the fields
and put up crosses.
Passed through the damned mountains,
went hellwards,
and some of us returned,
and some of us did not.

PJ Harvey, In The Dark Places (2010)
«La carriera di Napoleone fu come un lungo duello contro l'Europa intera, ma all'imperatore non piaceva che i suoi ufficiali si battessero tra loro; non gli piacevano gli ammazzasette e poco si curava delle tradizioni. E tuttavia c'è la storia di un duello che divenne leggenda nell'esercito imperiale e che attraversa tutta l'epopea delle guerre napoleoniche».
Nell'attacco del racconto The Duel (1908), Joseph Conrad fa giocare, l'uno contro l'altro, due punti di vista sul mondo – e sembra alludere ad una loro intima complicità: da una parte, vediamo muoversi la Storia, movimento dello hegeliano Spirito Assoluto che si rivela nella figura di Napoleone I; dall'altra, il brulicare delle piccole storie, che nondimeno, per dinamiche insondabili, sanno diventare leggenda e mistero già agli occhi dei loro contemporanei – e restano, come fantasmi fatti della stessa sostanza delle parole, nella memoria popolare.


Il duello è il racconto di una sfida che copre quasi due decadi: i suoi protagonisti, gli ufficiali D'Hubert e Feraud, hanno poco più di vent'anni quando tutto ha inizio – ne hanno quasi quaranta, quando la vicenda sembra trovare una conclusione. Il loro scontro vive nelle pieghe di atroci violenze collettive, che sconquassano l'Europa, ridefinendone a più riprese l'assetto geo-politico. Le vittorie e le sconfitte di Napoleone sono il terreno insanguinato nelle cui fratture Feraud e D'Hubert portano avanti una sfida insensata, irragionevole come il diniego ostinato del Bartleby di Melville. Se quest'ultimo rivela l'incepparsi del linguaggio come dispositivo sociale, gli infiniti duelli dei due giovani ussari, poi maturi ufficiali, stanno a testimoniare la cecità dell'agire umano, il suo esser senza scopo.

Tutto comincia – se così si può dire – in uno dei pochi giorni di pace armata, in cui soldati e ufficiali godono il riposo dei guerrieri, chiacchierando e lucidando spade che torneranno a sporcarsi a breve. L'ussaro D'Hubert deve comunicare all'ussaro Feraud che si trova in stato di arresto, avendo egli violato il regolamento militare, che vieta ai soldati di sfidare a duello i civili. Cosa che Feraud, mosso dal proprio animalesco istinto, ha puntualmente fatto. In pochi minuti, il rifiuto di fronte alla punizione e l'orgoglio ferito di Feraud danno il via ad una rivalità in cui si rispecchia un'epoca, ma che trascende il contesto storico per dirci qualcosa sul senso stesso dell'agire umano. Gli innumerevoli, ostinati duelli che Conrad racconta – a tratti con dovizia di particolari, altre volte con pennellate rapide – finiscono immancabilmente con un nulla di fatto: entrambi i contendenti sopravvivono – e se è vero che è la cieca furia di Feraud a dare pathos alla sfida, è anche vero che D'Hubert, che incarna un equilibrato, razionale desiderio di vivere e conservarsi nell'esistenza, in un ordine antico, sente sempre più nell'avversario un assurdo compagno, un intimo nemico.

Non è la smania di potere a muovere i protagonisti della vicenda: le loro gesta li fanno simili ad «artisti pazzi intestarditi a indorare l'oro, o a tinger di bianco i gigli»; non sono il denaro o la prospettiva di nuovi possedimenti a guidarne l'agire, ma il senso etico ed estetico dell'onore e del ridicolo. Conrad ci ricorda che «[n]essuno riesce in tutto ciò che intraprende. In questo senso non c'è chi non sia, in qualche misura, un fallimento». Il continuo fallire della sfida tra Feraud e D'Hubert è allora lo specchio su cui le imprese militari del loro tempo possono riconoscere il proprio volto: un destino immobile, una sfida inutile nella sua tragicità. Una sfida che proprio per la sua enormità e per la cieca ostinazione dei contendenti che la animano, non può che interrogare i commilitoni e tutti coloro che ne sentano il cupo e grottesco riecheggiare: perché? – si chiedono questi. Così è fatto l'uomo, che dove non vede ragioni le inventa e sa accettare solo storie che abbiano un inizio e una fine. Conrad però è lo scrittore che ha saputo raccontare i momenti di passaggio, le linee d'ombra e le vie di fuga, alla ricerca di una dimensione autentica dell'esistere – racconti narrati col volto girato all'indietro, a guardare il passato, come a cercare una fine per ciò che non ha principio. Non poteva non accadere anche all'inutile duello tra Feraud e D'Hubert che la ragionevolezza dei molti – commilitoni, generali e sottoposti – cercasse un motivo nel loro insensato rincorrersi e sfidare la morte.


Non trovando quel motivo, lo immaginarono misterioso, tragico – ingombrante nell'essere assente. E invece non c'erano che due uomini, due tra quelli che in quindici anni di guerra e morte erano sempre riusciti a tornare – eppure stare non potevano, perché una sfida intima e inutile li univa. Una sfida in cui far risuonare le promesse della giovinezza. Per gustare ancora il sapore vago, intenso di una linea d'ombra.
M.P.
Da leggere      J. Conrad, Il duello (1908); J. Conrad, La linea d'ombra (1917)
Da ascoltare   PJ Harvey, Let England Shake (2010)
Da vedere       R. Scott, I duellanti (1977)
Da bere          Riesling Alsaziano (2010)

La sfida di Aron Ralston

Canyonlands National Park. 
È tutta la settimana che Aron Ralston, ingegnere ventottenne della Intel, ci pensa: finalmente quel giorno è arrivato. 
Sabato 26 Aprile 2003, una bellissima giornata primaverile, l’ideale per un’escursione nei desolati canyon dello Utah. Una borraccia d’acqua, un paio di sandwich, il walkman, l’immancabile videocamera, una torcia, un coltellino, una corda: lo zaino è fatto. Aron Ralston ha già pianificato tutto, il posto dove lasciare la macchina, l’itinerario da seguire, la meta finale: il Blu John Canyon, gole strettissime nel deserto di terra rossa, uno spettacolo della natura. Aron ha questa grande passione per l’estremo, per le arrampicate, le escursioni sulla neve, il contatto con la natura selvaggia, non a caso uno dei suoi libri preferiti è Into the wild. Tutto questo ad Aron piace farlo da solo, lui e la natura, nessun altro a disturbare i suoi pensieri, nessun altro a coprire il rumore dei suoi passi e del suo respiro affannato. Come sempre, per aggiungere fascino alle sue avventure, anche questa volta non ha lasciato detto a nessuno dove andava. Per sua stessa ammissione, sarà l’errore più grande della sua vita.



Musica in cuffia, Aron Ralston intraprende la sua gita; si arrampica tra le rocce erose dai millenni e dalle piogge torrenziali, si infila nei cunicoli alla scoperta di scenari spettacolari, sempre con la videocamera in mano. Vuole esplorare il Blue John Canyon per qualche ora, poi ritornerà alla macchina prima dell’imbrunire. All’improvviso l’imprevedibile: Aron vuole scendere in una gola stretta, per farlo si aiuta reggendosi ad un masso di forma circolare che si è incastrato tra le pareti della gola, portato dalle piogge torrenziali; il masso però non regge al peso del ragazzo, venuto meno l’appoggio Aron cade ma trascina con sé la roccia che va a schiacciare la sua mano destra contro la parete del canyon. Un dolore lancinante, la mano lacerata; ma questo è nulla, il problema è che Aron non riesce a muoversi da quella posizione, il masso ha incastrato la mano ed è troppo pesante da sollevare. Il panico non fatica a farsi strada nella mente del ragazzo, le sue grida di aiuto sono inutili, è in mezzo ad un deserto di roccia. Con il coltellino Aron prova a scalfire la pietra, ma è troppo dura e la lama troppo piccola, la disperazione sempre più grande. La notte ormai è alle porte, il freddo si fa più pungente e il ragazzo sa bene che prima di domattina le ricerche non inizieranno, ricerche tra l’altro affidate al caso dato che Aron non ha detto a nessuno dove andava.




Non resta altro che provare a dormire, ma come fare in quella posizione? Aron è costretto a restare in piedi, prova ad appoggiare la testa sul braccio ma il dolore e il freddo lo svegliano ogni cinque minuti, puntualmente scanditi dalle continue occhiate all’orologio da polso. Dopo un’eternità, ecco rispuntare la luce del sole, ma solo la luce dato che la piccola porzione di cielo che Aron intravede dalla sua posizione (“la mia finestra sul mondo”) permette ai raggi solari di penetrare solo per pochi minuti. Un’occhiata allo zaino e lo sconforto sale ancor di più, poca acqua e pochissimo cibo.
Domenica pomeriggio. Sono ormai ventiquattro ore che Aron è in questa situazione, decide quindi di affidare le sue ultime strazianti emozioni alla videocamera nella speranza che i suoi genitori e i suoi amici possano un giorno ricevere il suo messaggio d’addio. Il sole scende ancora una volta all’orizzonte, forse per l’ultima volta. Invece no, il tepore dell’alba di lunedì riscalda il corpo del ragazzo, una nuova giornata è iniziata; Aron comincia a conservare la sua stessa urina in vista dell’esaurimento dell’acqua, il cibo ormai è finito.

ARON RALSTON R.I.P. 75-03, queste le lettere scalfite nella roccia da Aron in un momento di sconforto. La sfida contro la natura diventa ora una sfida contro sé stesso. No, non si può morire in questo modo a soli ventotto anni, bisogna prendere una decisone, e alla svelta. Le possibilità di un aiuto esterno sono minime, anche se un elicottero dovesse perlustrare la zona la gola è troppo profonda e stretta per farsi vedere; resta solo un’alternativa: andarsene da lì con le proprie gambe. Ma il modo per andarsene è uno solo…
La mano di Aron ormai è completamente insensibile, di un colore violaceo inguardabile, carne morta ancora attaccata ad un corpo vivo. Prova ad infilare la lama del coltellino nel braccio bloccato, ma riesce a malapena a scalfire la carne e di certo non potrà mai superare l’osso; con estrema lucidità e sangue freddo, facendo perno sul masso Aron si spezza l’avambraccio destro…”Toc”, un rumore sordo che riecheggerà per sempre nelle sue orecchie. Ma il lavoro è solo all’inizio: il coltellino per giunta ha la lama spuntata, quindi Aron deve procedere chirurgicamente ed elidere uno ad uno i tessuti e le vene che tengono legata la mano al braccio, solo a scriverlo il mio stomaco va in subbuglio. Con incredibile forza d’animo e coraggio, finalmente, Aron Ralston si è liberato da quel masso che lo teneva imprigionato da cinque giorni, ma una parte di lui resterà lì per sempre.

Oggi Aron Ralston cammina, corre, nuota, abbraccia sua moglie, tiene in braccio suo figlio, tutto grazie al suo nuovo braccio meccanico con il quale può sfidare ancora la natura, la sua grande passione.
Una volta ha scritto Paulo Coelho: “Una settimana è un periodo più che sufficiente per decidere se vogliamo accettare il nostro destino”; ad Aron Ralston sono servite 127 ore.



M.F.


Visione consigliata:    127 ore (2010), di D.Boyle.
                           Desperate days in Blu John Canyon, documentario della NBC trovabile anche su YouTube.
                               

Kraftwerk: uomo e macchina

I Kraftwerk non sono una band di musica elettronica: sono la musica elettronica. Punto e stop. Il loro nome dovrebbe essere più che sufficiente per liberare dalla vostra mente i vari Chemical Brothers, Air, Daft Punk, Depeche Mode Krueder&Dorfmeister e quel tanto contestato "Kid A" dei Radiohead.
Sono tutti gruppi immortali per carità, ma rimangono comunque prole esclusiva di coloro che, con apparati elettronici, hanno rivoluzionato la musica pop in nuovi linguaggi sintetici, fondatori di una rinnovata sensibilità estetica.

Era la fine degli anni 70 quando quattro musicisti di Düsseldorf, freschi di conservatorio, decisero di unirsi: il resto è leggenda. Senza di loro è impensabile la storia della musica popolare degli anni Ottanta e Novanta, per non parlare delle ultime svolte industrial (vedi i lontani cugini Rammstein).


Generatori di nuove ritmiche, artificiali eppure ancora umane, da leggere con percezione metafisica.

Coltissimi e di una raffinatezza che non ritroveremo più in nessun'altra band elettronica, i Kraftwerk si occultavano in una privacy impenetrabile e lo si percepiva nelle loro performances "brechtiane": la postura rigida, robotica, la parola ridotta al minimo, le tonalità che esercitavano un fascino ipnotico, per sdoganare la dodecafonia verso il pop.
Apparentemente afoni, i brani del quartetto tedesco sono un trip di inediti orizzonti, dove organico ed inanimato si mischiano in voci metalliche e ridondanti.

Qui si arriva a superare dunque ogni stile ideologico: basti pensare alle divise del gruppo, che in maniera inquietante richiamavano l'omologazione  nazista (bianco nero e rosso erano le componenti cromatiche delle bandiere hitleriane). Era un modo per denunciare e al tempo stesso praticare l'alienazione di massa come unica verità, il che stabiliva una continuità tra regime totalitario e contesto capitalista.
Una bomba ad orologeria quella dei Kraftwerk, pronta ad esplodere tra le macerie degli anni settanta: sbattuta in faccia alle platee europee, quando ancora la pubblica opinione spaventava il vecchio continente con la guerra fredda. In questo contesto, la neonata musica elettronica, penetrante ma vera ed autentica, intercettava un sentire popolare che si distanziava dall'estetica punk, pur spartendo con quest'ultima la convinzione assoluta di un futuro da azzerare.
Nella loro vertigine sonora, i Kraftwerk non risultavano appariscenti nei testi, ma tutta la loro composizione portava con sé una teoria politica ed estetica che profetizzava il futuro. La totalitaria rigidità tematica strideva volutamente con lo stile minimalista della musica e dell'immagine stessa del gruppo tedesco. Come in ogni rivoluzione o profezia, lo shock iniziale non fu indifferente.

L'universo  metallizzato e inorganico dei Kraftwerk è molto più reale di quel che crediamo: dominato dall'alienazione di massa che, nonostante i mutati contesti geopolitici e ideologici rispetto a quando i Kraftwerk iniziarono la loro opera, appare più che mai attuale e verificabile.


Autostrade, palazzi vuoti, geometrie lineari e planari, snodi ferroviari, laboratori scientifici, test automatici, presenze di manichini inanimati, macchine, rotori, ingranaggi - è la terra disumanizzata, abitata dall'uomo artificiale.  Il pallore mortale, ottenuto con un cerone applicato impietosamente sui volti inespressivi, raccontava e racconta ancora adesso di quattro uomini già in stato cadaverico e tuttora viventi - una permanenza funebre che continua a esercitare attività, un'allegoria impressionante, esercitata sul tempo stesso che essa rappresenta.

I Kraftwerk sembrano quasi un romanzo che abbraccia interi decenni, un romanzo di accadimenti fantastici, elaborazioni fantasmagoriche su feticci cresciuti nella cultura sociale, culla della nostra crescita. Sono materiali che nutrono la formazione in una civiltà di massa - lo si è appreso molto più difficilmente del previsto – e sono  puramente estetici quanto profondamente politici, significativi rispetto al futuro e ossessionanti rispetto al nostro presente, del quale difficilmente la memoria ne prenderà le distanze.

Questa è l'essenza della musica elettronica: una carica di pulsazioni, calore e sentimenti perfettamente umani, unita in perfetta simbiosi con la macchina, gli uni per le altre e viceversa.


M.B.

Il tris di ascolti fondamentale:

Autobahn (1974)
Trans Europe Express (1977)
Tour de France (1983)

Jobs vs Gates


La storia della sfida telematica tra Apple e Microsoft.

All'inizio per Steve Jobs e Steve Wozniak, futuri fondatori della Apple, c'erano solo degli aggeggi, le blue box, che permettevano di telefonare gratis in tutto il mondo. I due hippie, capelli e barba incolti, arrotondavano vendendoli ad amici e compagni di corso alla Berkeley University.

Bill Gates e il compagno di stanza Paul Allen, invece, come passatempo agli interminabili week-end liberi ad Harvard preferivano le playmate di playboy e il poker.
Tra una partita e l'altra Bill comincia a scrivere il nuovo linguaggio di programmazione, il Basic, che ben presto venderà all'Altair, piccola azienda produttrice di computer.



Wozniak, stanco di vendere le scatole blu, comincia nel suo garage a produrre - e a vendere - i primi prototipi di computer. Quando è costretto a proporre il progetto alla Hewlett-Packard, con la quale ha un contratto, gli viene respinta l'idea con la celebre frase: "Ma che diavolo può farsene la gente comune dei computer?". In questo preciso istante nasce la Apple Computer Inc. è il 3 gennaio 1977.

Il contratto che Bill riesce a strappare alla Altair si rivela un buco nell'acqua e la Microsoft è costretta a stabilirsi in un motel ad Albuquerque, mentre la Apple, con un Jobs sbarbato e incravattato, spopola e diventa un'azienda in piena regola.

Qui il colpo di genio - e di matto - di Bill che convince la IBM, all'epoca azienda colosso senza rivali per quanto riguarda l'informatica, a sottoscrivergli un contratto per il DOS (Disk Operating System) non ancora sviluppato.

Mentre la Microsoft comincia la scalata verso il successo, Steve si trova a fare i conti con la compagna incinta rifiutandosi di riconoscere la futura bambina come sua figlia.

Intanto la Apple sfrutta (ruba), tra gli altri, alcuni progetti di mouse, scartati dalla Xerox, per produrre il loro primo computer: "Lisa" (nome della figlia di Jobs).




Il colpo di grazia avviene quando Gates con l'idea di impadronirsi delle nuove idee della concorrenza, riesce a stringere un accordo con la Apple che gli cede alcuni prototipi del nuovo Mac. Lavorando in segreto al progetto, arriviamo così al 1997, quando esce il primosistema operativo Windows (fotocopia del sistema Mac, anch'esso rubato), che batte sul tempo di quasi un anno il primo Mac, rendendo Bill Gates l'uomo più ricco del mondo e Steve Jobs un uomo senza lavoro.

Una lunga storia di botta e risposta di furti, beffe e girate di spalle improvvise quelle fra i due guru delle più grandi case di produzione di computers al mondo.

Si arriva così alle soglie del 2000 quando la nuova tecnologia iOs -o come veniva definita da Jobs "era del post-PC, iPhone, iPad" -comincia a sferrare i primi colpi al colosso Microsoft.
Per capirci, se nel '95 per ogni mac venivano venduti 56 PC, nel 2010 questo rapporto si riduce solo a 2.

Questo si può spiegare facilmente col fatto che Microsoft ha avuto l'esclusiva durante l'era dei PC mentre la Apple ha saputo sfruttare un prezioso trampolino di lancio grazie alle soluzioni facilmente trasportabili che offriva (e offre tutt'oggi, nonostante la prematura morte di Jobs nel 2011 per un tumore al pancreas).

Questa eterna sfida rappresenta non solo una battaglia tra diverse aree di mercato, ma coinvolge anche due diverse filosofie, due storie completamente differenti e preziose.

E per concludere, una frase di Picasso, più volte citata sia da Steve che da Bill: "I bravi artisti copiano, i grandi artisti rubano."



A.L.

ANTI-ARTE

"Dada non significa nulla. È solo un suono prodotto dalla bocca."
(Manifesto Dada del 1918, di Tristan Tzara)


L’arte stessa è una sfida e più è contemporanea più diventa ardua, per questo si potrebbero portare mille esempi, ma ripensandoci bene ce n’è uno in particolare nella storia dell’arte che mi è assai caro. Sicuramente si tratta di una delle sfide più clamorose e divertenti di quel tumulto artistico che è stato il secolo passato.
 Nel 1916 mentre nel resto d’Europa infuriava la guerra più sanguinosa che il mondo avesse mai conosciuto, a Zurigo un gruppo di persone sceglieva di lavorare insieme nel nome della creatività, e così nasceva Dada!
La parola Dada non significa nulla; perché mai un gruppo artistico dovrebbe essersi inventato un nome tanto sciocco?
Perché Dada è libertà sfrenata di espressione e non accetta nessuna regola, questa è la sfida disarmante dei dadaisti. Si tratta della negazione totale della razionalità, baluardo di una tradizione basata sulla Logica che aveva portato alla rovina della società e alla guerra in corso. Dada si oppone radicalmente a questa cultura e usa il suo opposto principio, il nonsense, per scardinarne la struttura.

Ecco che nasce la poetica del caso, come mezzo alternativo alla Logica, che serve a creare strumenti di distruzione culturale; i dadaisti recuperano materiali di scarto e li assemblano, è questo il processo del ready-mades. Marcel Duchamp supera la scultura e sceglie oggetti comuni, che leggermente modificati vengono dichiarati opere d’arte ed esposti, stile statua classica, nei più importanti musei dell’occidente, assicurando l’effetto sorpresa sui frequentatori dell’ambiente abituati a ben altro!
Dada amplia le possibilità umane, l’artista può impossessarsi di qualsiasi cosa, magari di oggetti industriali, per introdurli nell’ambito artistico anche senza l’ausilio di una cornice.
Tutto va a sottolineare il fatto che i materiali ormai inutilizzabili secondo le regole del profitto, vengono investiti di un nuovo valore espressivo e artistico.
Sulla stessa linea di pensiero, con elementi volutamente scollegati tra di loro, vengono fatti dei collage, si sperimenta anche con la fotografia, vengono composte poesie onomatopeiche assurde che vengono recitate nelle esibizioni dadaiste.
Una svolta definitiva all’arte e al gusto è stata data!
C’è da domandarsi quale sia la sfida oggi, quando già tutto è stato distrutto, che altro c’è da distruggere? Forse risulterebbe assurdo oggi recuperate valori e concetti del passato? Forse i Dadaisti oggi tornerebbero indietro per colpire le fondamenta e gli ideali di questa società? Forse il senso di Dada, che non c’è, vale sempre e resta mutevole nel tempo, si adatta ad ogni momento, dada è sempre il contrario, dada ha capito tutto.


G.G.