cinque ragazzi. cinque ragazzi per cinque argomenti: letteratura, arte, musica, cultura e non solo... cinque argomenti in "cinque righe": il pentagramma, un progetto che si propone di accendere la curiosità del suo lettore suggerendo semplici spunti di interesse generale. Discorsi intrecciati l'un l'altro come note musicali che cercano l'armonia uniti dalla stessa "chiave".

mercoledì 18 gennaio 2012

Seventeen Seconds, a measure of life.



Il secondo album di studio dei The Cure, uscito nel 1980, rappresenta il manifesto dell’atmosfera dark (assieme a Unknown Pleasure dei Joy Division) che ha caratterizzato uno dei periodi musicali più controversi, quello della fine degli anni ’70, di raccordo tra il punk di fine decennio e il pop commerciale degli anni ’80. Seventeen Seconds è un album dalle atmosfere cupe, malinconiche, direi oniriche. E già dalla traccia di apertura dell’album, A Reflection, sembra di entrare in un sogno, un incubo, accompagnati dalle note lente e malinconiche del piano che si legano a meraviglia con il suono appena più vivace della chitarra, a cui fanno da sottofondo delle voci strazianti e inquietanti. Play For Today è forse la canzone più agitata e di polemica dell’intero album (It’s not a case of doing what’s right / It’s just the way I feel that matters / Tell me I’m wrong / I don’t really care), di un uomo in polemica con se stesso e con la propria compagna (You expect me to act like a lover / Consider my moves and deserve the reward / To hold you in my arms), un testo cantato da Robert Smith con un tono di disagio e ribellione. Al contrario, in Secrets le parole vengono sussurrate, quasi a nascondere un amore impossibile e travolgente che non può essere rivelato (Secrets / Share with another girl / Talking all night in a room) tra due amanti che non possono godere a pieno dei loro sentimenti e che sono destinati a non rivedersi più (One look relives the memory / Remember me the way I used to be), il tutto accompagnato da una chitarra nervosa che sembra sottolineare il disagio dei due protagonisti del testo, mentre basso e piano restano su toni cupi e malinconici, con un crescendo verso la fine del pezzo come a lasciare ancora qualche speranza. Three e The Final Sound (strumentali) suonano da preludio all’altro capolavoro dell’album, A Forest, la parte centrale della visione onirica in cui siamo stati trasportati. L’intro del pezzo, meravigliosa nella sua inquietudine, ci fa giungere ad una batteria che descrive perfettamente la rincorsa di un uomo all’interno della foresta verso una ragazza sfuggevole (nella mia immaginazione la stessa di Secrets) ed i suoi battiti del cuore frenetici, a cui segue uno dei giri di basso più azzeccati della storia della musica. Dalla foresta giunge un richiamo (I hear her voice / Calling my name / The sound is deep / In the dark) a cui non possiamo opporre resistenza, e ci buttiamo nell’oscurità a rincorrere l’ignoto (I hear her voice / And start to run / Into the trees); all’improvviso (Suddenly I stop / But I know it’s too late) ci accorgiamo di essere da soli nell’oscurità della foresta, traditi dall’immaginazione (I’m lost in the forest / All alone / The girl was never there / It’s always the same / I’m running towards nothing), e le nostre emozioni svaniscono ad una ad una come svaniscono i suoni degli strumenti (prima la batteria, poi la chitarra), lasciando solo la malinconia sottolineata dal giro di basso che continua imperterrito.
Seventeen Seconds, traccia finale, conclude in modo perfetto l’album con una chitarra semplice e triste accompagnata da un basso che aggiunge frenesia, volto a suggerire la fugacità dell’esistenza (Time slips away / And the light begin to fade) come quella del sogno (Feeling is gone / And the picture disappears / And everything is cold now / The dream had to end / The wish never came true). Una vita che, come se fosse un sogno, riempie solo diciassette secondi.

                                                                                                                                  M.F.

domenica 15 gennaio 2012

La faccia oscura degli Anni Ruggenti: il Proibizionismo

Mentre a Parigi imperversavano gli Anni Folli, negli Stati Uniti dominavano i gangster e il proibizionismo.

“Ehi Max, quanti soldi abbiamo in cassa?”
“Perché?”
“Siamo disoccupati.”

È il 20 novembre 1933, e nei quotidiani americani esce la notizia che in dicembre verrà ritirato il Volstead Act, sancendo la fine del proibizionismo. Il dialogo si svolge tra Maximilian “Max” Bercovicz (interpretato da James Woods) e David “Noodles” Aaronson (Robert de Niro), nell’ultimo grande capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America (1984): i due sono a capo di una gang che, grazie al commercio illegale di alcolici, ha costruito un business da milioni di dollari e vede concludersi la “carriera” da contrabbandieri con la fine del proibizionismo. Come la banda di Max e Noodles, gli anni tra il 1919 e il 1933 vedono la nascita negli Stati Uniti di numerosissime cosche criminali legate al commercio di contrabbando di alcolici, nelle quali la figura di maggior spicco è sicuramente quella di Al Capone. Ma cosa portò il governo americano a proporre un emendamento contro la fabbricazione, la commercializzazione e il consumo di sostanze alcoliche?
Le ragioni furono molteplici. Prime fra tutte vi era la forte pressione esercitata dalle Società di Temperanza, movimenti politico – religiosi caratterizzati da un forte moralismo capaci di influenzare notevolmente, attraverso i loro voti, le politiche del governo statunitense. Nel primo ‘900 il consumo di alcool tra la popolazione americana era molto alto, soprattutto nei ceti più poveri (ma non solo), con immaginabili conseguenze negative nei rapporti sociali. Ma vi era anche una ragione economica: molte di queste Società di Temperanza erano infatti sostenute anche da alcuni tra i più importanti magnati della fiorente industria americana (Rockefeller, Ford, Joy), i quali apportavano ingenti quantità di denaro (e i voti sopracitati). Era infatti opinione diffusa che l’abuso di alcool e sostanze stupefacenti portasse ad un aumento dell’assenteismo dal lavoro e ad una diminuzione dell’efficienza della manodopera, oltre ad impoverire il tessuto industriale americano, con le spese delle famiglie destinate più alle bevande alcoliche che non ai beni generati dalle imprese nazionali.
Il 16 gennaio 1920 entrarono in vigore il Volstead Act e il XVIII Emendamento degli Stati Uniti, sancendo il bando sugli alcolici e le sostanze alteranti contenenti una quantità di alcool superiore allo 0,5% del volume; la sera del 15 gennaio, milioni di americani presero d’assalto i negozi per accaparrarsi le ultime bottiglie vendibili legalmente. Inevitabilmente i prezzi degli alcolici salirono alle stelle: niente di più allettante per la nascita di numerose reti di contrabbandieri.
La perversità della mente umana tende a violare le regole più esse sono restringenti: il proibizionismo non fu un’eccezione. Il consumo di alcool non diminuì, ed anzi diventò sempre più pericoloso in quanto, essendo la preparazione delle bevande illecita e quindi non più controllata, vi andavano a confluire le più disparate sostanze, alcune delle quali dannose per la salute, che causarono non pochi decessi tra i bevitori più accaniti (come quando furono scoperte le qualità alcoliche dello zenzero giamaicano tralasciando il fatto che la sua assunzione provocava una paralisi di gambe e braccia). Come si procuravano gli alcolici ora i cittadini americani? Il mezzo più diffuso era quello degli “speak-easy”, sorta di locali dove si entrava solamente con una parola d’ordine predeterminata e dove si potevano consumare bevande alcoliche. In genere gli “speak-easy” si avvalevano di un negozio civetta (come ad esempio un ristorante), dal quale, passando nel retrobottega con la parola d’ordine, si entrava in un locale in cui poter sorseggiare tranquillamente del whisky o del brandy lontani da sguardi indiscreti.



I fili del contrabbando degli alcolici erano diretti dalle più importanti famiglie di criminali, tra le quali primeggiava la figura di Al “Scarface” Capone, soprannominato così per la vistosa cicatrice che ne deturpava il volto causata da una coltellata inflitta dal fratello di una donna sulla quale Capone aveva espresso apprezzamenti pesanti (e la cui figura è stata interpretata magistralmente da Al Pacino in una trasposizione cinematografica del personaggio nel traffico della droga degli anni ’80 nell’omonimo film di Brian de Palma, re-make di Scarface di Howard Hawks del 1933). Al Capone, da criminale avveduto, investiva parte degli introiti incamerati grazie al contrabbando in attività lecite, che ne occultavano quindi i guadagni illeciti, oltre a numerose bustarelle passate a poliziotti e autorità governative (tra le quali spiccava il sindaco di Chicago William Hale Thompson) attraverso le quali si garantiva una protezione politica. Le bande di contrabbandieri sorgevano numerose ovunque, allettate dai consistenti guadagni prodotti dalla commercializzazione degli alcolici: le guerre tra cosche diventarono così inevitabili, sfociando in uno dei regolamenti di conti più cruenti della storia, la Strage di San Valentino. Il 14 febbraio del 1929 cinque scagnozzi della banda di Capone, travestiti da poliziotti, fecero irruzione nella sede di una gang rivale capeggiata da George “Bugs” Moran: fingendo un controllo di polizia, i sette componenti della gang nemica vennero messi in fila spalle al muro e fucilati come in un’esecuzione.
Tra le vittime del proibizionismo vi furono anche numerosi civili innocenti, che ebbero la sola colpa di trovarsi nella strada sbagliata al momento sbagliato, nel mezzo delle continue sparatorie tra polizia e gangster, o colpevoli di gesti equivoci ai quali la polizia non ci pensava su due volte prima di aprire il fuoco.
Verso la fine degli anni ’20 anche i più accaniti sostenitori del proibizionismo cominciarono a rendersi conto del suo fallimento: gli “speak-easy” erano più frequentati e più numerosi dei bar tradizionali, i decessi per cause legate all’alcool erano sempre più frequenti, non ultimo l’aumento del 50% dei suicidi dovuti alle indigenze economiche causate dalla dilapidazione di interi patrimoni per potersi procacciare le bevande alcoliche. Il commercio di contrabbando era ormai uno dei più fiorenti dell’industria americana, e il puritanesimo e il perbenismo delle Società di temperanza, in fin dei conti, non aveva fatto altro che peggiorare la situazione, dando linfa vitale a un sistema di criminalità e corruzione. Per eliminare il proibizionismo bastò una votazione, ma le pagine della storia resteranno indelebili così come i necrologi delle vittime di questa follia. Negli Stati Uniti gli Anni Folli furono interpretati così.

M.F.

Il manichino Stravinskij

“...un acrobata, un funzionario statale, un manichino da sarta, psicotico, infantile, fascista, e devoto solo al denaro.” (Theodor Adorno, 1948)
Accostare Stravinskij ad un manichino mi fa pensare al suo variegato stile: russo di carattere cosmopolita agli esordi, fauvista neoclassico nel suo periodo più maturo e infine convertito alla dodecafonia negli ultimi anni di vita.
Il compositore, naturalizzato francese, deve la sua fama a due balletti composti nella prima parte della sua carriera: Petrushka (1911) e Le Sacre du Printemps (1913).
La prima de La Sagra della Primavera non venne accolta dalla platea a braccia aperte. Il concerto si concluse con una rissa, risultato cercato dall’autore che sottolinea, non a caso, il legame tra i balletti pagani degli “adolescenti” che pregano per la benevolenza della “madre terra”, al mondo
dei lavoratori russi che invocavano migliori condizioni lavorative allo zar.
In realtà il pubblico non abituato alla musica di Stravinskij, zeppa di poliritmie e bitonalità, si trovava ancora più spaesato dai balletti e dalle coreografie del tutto innovative per l’epoca.
Gli anni ’20 sono, per il compositore, un ritorno al classicismo, in contrapposizione alla nascente idea compositiva della dodecafonia di Schoenberg che annullava tutti i rapporti tonali tra le note, l’atonalismo. In questo modo tutti i suoni “pesano” egualmente e non sono più presenti le gerarchie che creano tensione o risoluzione in un pezzo.
Stravinskij lascia da parte le grandi orchestre per combinare piccoli organici in composizioni che hanno il suo tratto stilistico inconfondibile. È presente l’armonia tonale classica, ma, al suo interno, vi si divincolano sorprendenti dissonanze e passaggi ritmici - o “contro ritmi”, aggettivo spesso usato dal compositore –ormai divenuti il marchio del maestro.

Nonostante lo stile del “manichino Stravinskij” subirà ulteriormente una variazione verso la fine degli anni ’20 non erroneamente, a mio avviso, si etichetta Stravinskij come autore neoclassico per eccellenza. Nel periodo seriale o atonale, ampiamente ripudiato e criticato all’inizio della sua carriera, il compositore prenderà come modello non Arnold Shoenberg, padre indiscusso della dodecafonia, ma Anton Weber cioè colui che farà proprio il linguaggio dodecafonico utilizzandolo per costruire una scrittura elaborata, appunto il serialismo.
Si parla di serialismo come "metodo di composizione con dodici note non imparentate tra di loro": essa, profondamente e rigidamente sorretta da regole ferree, diviene sintomo di resistenza dall’oppressione nazista. Data la sua stessa natura innovativa e controcorrente, la tecnica, è stata il punto da cui partire per i primi compositori antifascisti. Stravinskij utilizzerà il metodo seriale, ormai diventato un linguaggio di composizione al pari di un qualsiasi altro lessico da lui utilizzabile e modificabile, come negli anni ’20 utilizzava gli stilemi della musica sette-ottocentesca, per ricreare pezzi neoclassici.

Ciò che per Adorno è un illusione, “il tentativo della sua musica di ritrarre il tempo come in un dipinto di circo e di presentare i complessi temporali come fossero spaziali” io personalmente la trovo una perfetta sintesi del lavoro di Stravinskij: sempre alla ricerca di uno stile cangiante, pronto ad adeguarsi con prontezza alle esigenze del tempo, esuberante e a volte fuori da tutte le logiche dell’epoca.
Nel panorama di impoverimento culturale, di cui ormai siamo abituati, sarebbe benaccetta una nuova “rivoluzione musicale” che ci renda quantomeno divergenti sul modo di pensare, e quindi esseri umani unici.
Stravinskij e altri grandi del passato sono riusciti, grazie a quel tipo di musica “difficile da ascoltare”, a risvegliare la coscienza della gente, la I guerra mondiale, la depressione, l'ascesa del nazismo e la II guerra mondiale, la paura dell'atomica e la guerra fredda.
Oggi non riusciamo a renderci conto che la musica è investita da una leggerezza che la rende, oltre che monotona, scontata e fuori dalle logiche del tempo: la musica allontana l’uomo dalla vita sociale e politica.
Riascoltando la più che attuale Sagra della Primavera non posso che pensare allo scalpore che a suo tempo provocò fra gli ascoltatori di “alto rango” e a come il mito di Stravinskij sia, ancora al giorno d’oggi, vivo e avanguardistico.


A.L.

Amedeo Modigliani: vita di un bohemien

«Aveva la testa di Antinoo e occhi dalle scintille d'oro. Non somigliava assolutamente  a nessuno al mondo. La sua voce mi è rimasta sempre nella memoria. Lo sapevo povero e non si capiva di che vivesse; come artista, nemmeno un'ombra di riconoscimento»             [Anna Achmatova]

Che cosa significa davvero essere bohemien? E' una domanda che mi pongo visto che al giorno d'oggi è chiaro come stia diventando sempre più una moda seguire uno stile di vita maledetto, trasandato e anticonformista, o meglio che viene definito tale. La società, e il mondo universitario in particolare, pullula infatti di giovani che si definiscono dei novelli bohemien, e forti di questa autoconvinzione, intasano i social network con le loro foto in bianco e nero (rigorosamente modificate a computer) e con frasi ricercate. Tutto questo allo scopo di diffondere intorno alla loro vita un alone di mistero e originalità. Ma davvero si è convinti che basti solo spettinarsi i capelli e mettersi una sigaretta in bocca per assumere le sembianze di un artista, che basti vestirsi in modo trasandato? No, essere bohemien non vuol dire affatto questo.
Credo che bohemien si nasca, è un qualcosa che si ha dentro, è un malessere che non ti abbandona mai neanche nei momenti di felicità, è un verme che ti striscia nella pancia e che arriva all'anima. Si ecco, è un mal d'anima. Amedeo Modigliani è stato il bohemien per eccellenza: bello, maledetto, bravo e infelice. La sua storia e la sua arte sono una componente di quella cultura, geniale e folle, che nasce e si diffonde nella Parigi degli anni '20, una storia che vale davvero la pena di raccontare. Modì, com'era chiamato da tutti, fu uno dei pochi artisti del primo novecento coerente fino alla fine con il proprio ideale di vita artistica e trasgressiva. Modigliani superò sicuramente tutti i limiti della buona vita borghese, sia come uomo che come artista, ma nessuno può mettere in dubbio che egli sia stato uno dei fondatori dell'arte moderna.
Amedeo Modigliani nasce a Livorno il 14 luglio del 1884, quarto e ultimo figlio di Eugenia Garsin e Flaminio Modigliani. Quella di Amedeo era una tipica famiglia matriarcale con a capo Eugenia, donna di indole forte e di grande ingegno, era lei che mandava avanti la famiglia che, all'epoca della nascita di Amedeo, non versava in condizioni economiche molto favorevoli. La donna aveva una particolare predilezione per il suo ultimo figlio, forse anche perché fin da subito il piccolo aveva mostrato una salute molto cagionevole. E' proprio a causa di quest'ultima che Amedeo ottiene dalla madre il permesso di lasciare gi studi per dedicarsi al disegno e alla pittura, per i quali aveva mostrato una spiccata attitudine. Amedeo, quindi, fin dall'infanzia rivendica la sua voglia di esistere come artista. Frequenta dapprima lo studio di Guglielmo Micheli a Livorno, poi l'Accademia di Belle arti di Firenze e di Venezia, e approda infine a Parigi nella primavera del 1906. Amedeo aveva 21 anni e tutta la passione dell'artista nelle vene.

Parigi era al tempo la capitale d'Europa, centro cosmopolita, luogo di libertà artistiche per i giovani che giungevano da tutto il mondo con la speranza di affermarsi come artisti e intellettuali. Ed è a Parigi che Modigliani scopre la sua vera identità, ma non fu certamente un percorso facile il suo, ed è infatti solo a partire dal 1914 che comincia a farsi largo in quella massa eterogenea  di aspiranti artisti e a creare un suo stile. Paradossalmente però, mentre il suo stile si fa sempre più definito e originale, la sua vita diventa sempre più turbolenta ed eccessiva, e la sua salute sempre più fragile. Modigliani abusa di alcool, droghe, fumo. Nonostante questo comunque riesce a creare qualcosa di davvero unico, uno stile pittorico estremamente personale, non assimilabile a nessuna corrente o gruppo artistico.

La semplificazione formale di masse e volumi diventa la caratteristica principale dello stile di Modigliani, che decide di dedicarsi quasi esclusivamente al ritratto. Elementi quali il corpo, il busto, i tratti del volto vengono allungati in maniera innaturale ma elegante. Ciò che però colpisce in maniera particolare sono gli occhi: grandi, a mandorla e vuoti. Grandi occhi vuoti, vuoti come buchi neri, vuoti come abissi. Occhi nei quali Modigliani trasmette tutta la tristezza e la malinconia della sua vita tormentata.
Nell'ultima fase della vita di Modì, tra successi e insuccessi artistici, tra continue sbornie e risse nei caffè, e dopo tanti amori anonimi, arriva lei. Jeanne Hébuterne, la donna che sarà la sua compagna fino alla fine, e anche dopo. Amedeo amava le donne, le amava tutte intensamente, ma solo lei gli portò via l'anima. Jeanne è ritratta in circa 25 quadri, tra i più belli e delicati, ed è in particolare in questi quadri che emerge la straordinaria capacità che aveva Modigliani di rendere immortale il soggetto che dipingeva.
Il legame di Jeanne e Amedeo, per quanto disapprovato dalla società borghese, era forte e autentico, e costituì anche uno stimolo positivo per il lavoro dell'artista. Modigliani amava Jeanne, ma non amava se stesso. Si lasciò morire, Amedeo, il 22 gennaio 1920, devastato nel fisico e nella mente. Jeanne, inscindibilmente legata al suo pittore, non riuscì a sopravvivere: il giorno dopo, all'età di 22 anni e al nono mese di gravidanza, si gettò da una finestra del quinto piano della casa dei genitori.

Amedeo Modigliani sicuramente può essere criticato per il modo in cui decise di vivere la sua vita, per il modo in cui si lasciò morire a 35 anni, ma non per la sua arte, per quello che è riuscito ad esprimere in pochi tratti essenziali. Passano gli anni, passano le mode, ma i ritratti di Modì sono ancora lì, con i loro sguardi attoniti e i loro occhi malinconici e sembrano suggerirci che, forse, lasciare un segno in questo mondo è possibile.



D.C.

"Midnight with Woody" Recensione dell’ultimo film di Woody Allen “Midnight in Paris”

Nel dover recensire l’ultimo film di Woody Allen, Midnight in Paris, sono quantomeno combattuta tra approvazione e censura ad una creazione che ai miei occhi talvolta appare ridondante e scontata.
Il monologo in apertura rende di facile individuazione la mano del regista che si lascia andare fin da subito ad una dichiarazione d’amore nei confronti della città in cui è ambientata la storia, Parigi.
Gil, protagonista del film, è sempre stato sceneggiatore, ma di recente si è concesso un tentativo per emergere come scrittore. Egli è fidanzato con Ines; insieme si trovano a Parigi per una breve vacanza da vivere alle spese del padre di lei, borghese e repubblicano. Gil non sembra piacere molto ai genitori di Ines che non appoggiano né la proposta di trasferirsi a vivere nella capitale francese né la nuova carriera da lui intrapresa che al momento lo connota solo come uno scrittore fallito incapace di far leggere ciò che scrive. È chiaro fin dal principio che la coppia Ines - Gil manca di chimica: lui ama la pioggia e in particolare Parigi sotto la pioggia, lei non concepisce l’idea di dover uscire col bagnato, lui sembra prendere le parti della servitù: ‘ecco perché papà dice che sei un comunista!’ mentre lei è disposta a spendere una cifra ruotante attorno ai 20.000 dollari per una sedia -nonostante non abbiano ancora una casa e divergano sul continente in cui vivere- e lamenta la collana in pietra lunare da lui regalatale, perché ‘se è cheap è cheap!’. Dopo la degustazione di vini condotta in compagnia dei suoceri e di una coppia di amici di Ines Gil, lasciato solo dalla fidanzata, inizia a vagabondare per le vie di Parigi e, ancora inebriato dal vino, vi si perde. Al rintocco della mezzanotte si trova seduto sugli scalini di una chiesa ed è in quell’istante che passa di là una macchina d’epoca i cui passeggeri lo invitano a unirsi a loro.
Gil diviene una sorta di Cenerentola del 2011 e da questo momento in poi, per il nostro protagonista, hanno inizio una serie di fortunosi incontri che lo porteranno a vedere e conoscere alcuni dei più famosi scrittori, artisti e musicisti del primo Novecento: Hemingway, Scott e Zelda Fitzgerald, Picasso. Il film si infittisce così di personaggi che si presentano a Gil con una tale velocità da lasciare però perplessi. Talvolta, infatti, di tali grandi del passato non resta altro che un viso, impresso nella mente dello spettatore per una battuta più o meno simpatica quale ‘io ci vedo un rinoceronte!’ del grande Dalì. Inoltre nomi e citazioni si accavallano l’un l’altro tanto da risultare di difficile apprezzamento a chi manchi di una cultura artistica, cinematografica e letteraria.

Arrivato una sera a casa di Gertrude Stein a Gil viene data la possibilità di portarle il manoscritto del suo romanzo per averne un parere. È lì che conosce Adriana, la Adriana che fu amante di Modigliani prima, di Picasso poi. Il giorno seguente Gil tenta di condurre anche la propria compagna a conoscere i suoi miti, ma i due arrivano troppo presto e Ines, infastidita, se ne torna in albergo sottolineando la stranezza del suo comportamento e il ‘penserei che hai un tumore al cervello’. L’unica infatti a non dare troppo peso al comportamento di Gil è proprio la fidanzata che, anzi, ne approfitta per uscire tutte le sere con l’amico americano. Avendo preso una cotta per Adriana, Gil sale su una carrozza e la segue nel mondo da lei vagheggiato: la Belle Époque di Parigi. Lì emergono altri personaggi, altri nomi quali Lautrec, Degas, Gauguin e Gil, trovandosi costretto a scegliere tra quella realtà e quella del 2000, decide di dividersi dall’innamorata per tornare al suo mondo e lasciare definitivamente una fidanzata che forse non ama e con la quale non va sicuramente d’accordo. Nel finale, scontato e prevedibile, la pioggia che inizialmente era stata oggetto di dissenso tra i due fidanzati sembra ora unire Gil e Gabriella, la dolce bionda parigina venditrice di vinili conosciuta grazie alla musica di Cole Porter.
Secondo la definizione data dall’amico pedante di Ines, Gil è inizialmente affetto dalla ‘sindrome da epoca d’oro’: infatti anche nel libro che è intento a scrivere egli si propone di raccontare la storia di un ‘negozio nostalgia’, un negozio in cui si vendono oggetti del passato, cose vecchie. Questa sua attitudine a voler rivivere e rievocare il passato, la cui epoca d’oro viene da lui individuata negli anni ’20, lo porta ad esaltare la fuga e il sogno ad occhi aperti, a vagheggiare un’altra esistenza diversa dalla sua. Sarà proprio questo forte desiderio a trasportarlo in un’altra dimensione che, però, si rivelerà fonte del disincanto: Gil si rende conto che un confronto col presente è necessario, che non basta fuggire e che, come lui, anche i grandi del passato avrebbero voluto vivere in un’altra epoca quale la Belle Époque o la Renaissance.
In termini di ricerca di nuovi luoghi in cui vivere, è stato fatto un parallelo con un episodio dell’opera di Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, in cui il casellante sostiene come nessuno sia mai realmente contento del luogo in cui si trova a vivere.
Nel complesso, a mio parere, l’idea che soggiace a Midnight in Paris è originale e diversa dagli altri film alleniani, ma  penso che l’escamotage del battito dell’orologio a mezzanotte manchi di consistenza narrativa, che sia illogico e ripetitivo. Non bisogna inoltre lasciar correre la superficialità  dell’elevato numero di incontri capitati a Gil, che potrebbero dire molto, ma che si concludono con un senso di vuoto. Forse la simpatia e l’ammirazione spesso provati nei confronti del regista annebbia quella che è la realtà di questo film che, in fin dei conti, forse dovrebbe colpire più per la fotografia e l’ambientazione parigina che per la storia in sé.

S.T.


Il segreto di Fitzgerald


I ruggenti anni venti, l’età del jazz, un momento storico in cui niente sembra impossibile.
Il sogno americano.
I piaceri della ricchezza, i soldi, la prosperità, la libertà dei costumi.
Questo è solo il sottofondo, è solo la base di partenza dei romanzi di Francis Scott Fitzgerald.
“Qualsiasi vita è, naturalmente, un processo di demolizione”: si potrebbe così riassumere quello che è l’intento dell’intera sua opera, del suo cinismo, della sua amarezza e tuttavia del suo grande idealismo romantico.
E’ come se in Fitzgerald più l’analisi delle classi agiate viene spinta nel profondo, più ci si addentra nel mondo dei ricchi, di coloro che non hanno limiti e che “ tutto possono”, più la constatazione di un’estrema desolazione dell’animo, di perdita di significato di tutte le cose, di depravazione, si chiarisse e assumesse un significato universale.
Ne Il grande Gatsby, 1925,  emerge proprio questo senso di caduta e di peccato.
Con la descrizione del lusso, delle grandi e sontuose feste, della vastità delle proprietà, dell’argenteria, della cura estetica  delle donne e della bellezza delle loro vesti, sembra quasi che l’autore ottenga un effetto opposto e contrario a quello che sta dicendo e descrivendo.
E’ come se si riproponesse a più di quarant’anni di distanza il mondo di Dorian Gray, come se quello che si vedesse all’esterno fosse l’eternamente giovane e bello e sacro e amabile, e sotto questo velo si celasse poi tutto un altro mondo, di dannazione e decadenza morale portata all’eccesso.
Non a caso Francis Scott Fitzgerald è considerato lo scrittore simbolo della “generazione perduta”. Una generazione che ha tutto eppure che si avvia al grande crollo del ’29.
Ora più che mai Il grande Gatsby fa pensare e riflettere:
Quanto conta nella nostra vita il denaro?
Quanto i soldi? La ricchezza? Il successo?
Quanto il nome? La fama? Il titolo?
Che tutto ciò non abbia niente a che fare con la vera felicità?
Gatsby organizza feste grandissime solo perché così spera finalmente di rincontrare la donna amata.
Ecco la risposta.


G.D.C.

martedì 3 gennaio 2012

IL PENTAGRAMMA: NUMERO I° IN USCITA IL 15 GENNAIO 2012

IL PENTAGRAMMA: NUMERO I° - IN USCITA IL 15 GENNAIO 2012


"GLI ANNI '20"

 

Tutto iniziò così:

"E' giovedì. Potremmo andare al cinema stasera! "
"Cosa danno?"
"L'ultimo di Woody Allen, Midnight in Paris"

...

"Peccato che non ci fosse Modì il bohemien"
"Però c'erano Zelda e Scott Fitzgerald!"
"Io non so niente degli anni venti.."
"Stravinskij era di quel periodo no?"
"Quello che si ubriacava sempre di whisky?"
"Ma no..c'era il proibizionismo, non si poteva!"
"E cosa c'entra?"
"Non lo so"
Questi siamo noi.
Il pentagramma.